Era il 1949: un virgulto tra le macerie…

Erano passati appena quattro anni dal settembre 1945 e, quindi, dalla fine del secondo conflitto mondiale.

L’Italia aveva rimosso le macerie e aveva già ricominciato la ricostruzione, anche grazie ai finanziamenti del piano Marshall.

Nel 1949 l’economia del Paese tornò ai livelli del 1938 ed i grandi investimenti statali avvenivano attraverso ENI (Ente Nazionale Idrocarburi) ed IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) con la costruzione o ricostruzione di autostrade, ponti, strade, impianti siderurgici e petrolchimici.

Siamo, quindi, alla vigilia della Riforma agraria (e della Legge stralcio che vide beneficiate anche Puglia e Basilicata), nonché alla vigilia della istituzione della Cassa per il Mezzogiorno.

Mentre l’Italia si preparava al boom economico, Altamura – Sindaco Colafelice – ospitava, nel “campo 65” (ove, sino a qualche anno prima, erano stati ristretti circa 9.000 prigionieri di guerra), profughi dalmati ed istriani. Nel contempo, registrava un incremento della popolazione – rispetto al 1936 – del 25%, onde la capitale delle Murge contava 40.000 abitanti, contro i 30.000 di Matera, i 28.500 di Gravina, i 19.700 di Santeramo in Colle.

In questa cornice, tra il 1945 ed il 1950, un virgulto tra le macerie. Un giovane muratore di Altamura coglie il fermento e la forte determinazione dei suoi concittadini a ripartire.

Nicola Quartarella era già molto apprezzato soprattutto dai panificatori e dai fornai perché realizzava quello che ormai, oggi, costituiscono un “Museo”, ossia i forni per la cottura del Pane di Altamura

Egli aveva partecipato alla occupazione del Regno di Albania (tra il 1939 ed il 1943) per poi servire la Patria nel settore logistico di stanza a Bari.

Aveva conosciuto e sposato Irene, sorella di un commilitone con il quale aveva condiviso i disagi ed i dolori della guerra.

Aveva già tre figli maschi (Pietro, Angelantonio, Michele), quando, proprio nei primi giorni del 1949 Irene dette alla luce il quarto figlio, Peppino.

La domanda di tavole, travi e tegole per la ricostruzione dei tetti e delle soffitte era molto alta e Nicola si rese conto che ad Altamura vi era un solo negozio, a metà del corso Federico, sotto l’Arco del Duomo. “Oliva & Maculan” sin dai primi anni del 1900 si occupava della vendita di materiali per l’edilizia con deposito a piazza Unità di Italia, angolo Viale Regina Margherita.

Un altro rivenditore di materiale per l’edilizia, Vito Massaro, aprì un nuovo negozio sotto la casa della famiglia Calia, avvalendosi degli spazi del cortile del Simone Viti Maino per farvi un magazzino.

Gli ingegneri che operavano sul territorio – con la partecipazione di numerosi geometri (tra i quali Andrea Maggi, Filippo Perrucci, Domenico Gnurlandino, Giovanni Gramegna, Vitangelo Manfredi, Giovanni Disabato, Domenico Denora) – si contavano su un palmo di mano. Ricorderemo l’ ing. Giacinto Genco, l’ ing. Luigi Chierico, l’ing. Striccoli, l’ing. Decaro a cui si aggiunsero gli ingegneri Donato Denora, Marcello Indrio, Michele Marvulli e Nicola Tritto.

I professionisti dell’epoca avevano l’esigenza di coniugare le nostalgie neoclassiche con i principi del Movimento Moderno, e del Razionalismo con il Realismo contadino e bracciantile, e con le disponibilità finanziarie.

I contadini che si accingevano a costruire, con sacrifici – e spesso con mano d’opera familiare – le nuove case a ridosso delle arterie principali (Viale Martiri, Via Dei Mille, Via Santeramo, Via Corato) avevano bisogno – prima di tutto – di ricoverare, al piano seminterrato, il cavallo (forza motore nei lavori dei campi), botti, tini e cesti per vinificare, e piccoli attrezzi.

Quindi, al piano rialzato la cucina pranzo e le camere da letto. In soffitta, la legna che veniva trasportata con l’aiuto di una carrucola e di una fune.

Le baracche di Sabini erano il simbolo di una tipologia di abitazioni che soddisfaceva, in maniera semplice e povera, le esigenze minimali.

Venivano, così svuotati i principi del Movimento Moderno e di Le Corbousier che concepiva la casa come macchina per abitare, come unita’ abitativa facente parte di un quartiere e di una città.

Il cemento armato – benché da numerosi lustri impiegato per la costruzione di edifici pubblici – non aveva trovato diffusione nell’entroterra meridionale.

Paradossalmente fu introdotto proprio grazie alla legge stralcio del 1950, allorquando, con la parcellazione dei latifondi espropriati, assegnava ai contadini e braccianti poderi da 8/10 ettari insieme ad una casa colonica realizzata intorno ad una Chiesa, una piccola piazza ed uno spaccio.

Quelle costruzioni prevedevano pilastri e coperture in cemento armato e davano vita a villaggi che avevano un valore relazionale e aggregante importante, soprattutto al termine della giornata lavorativa: Fornello e San Giovanni ad Altamura, Dolcecanto e La Murgetta a Gravina, Venusio e La Martella a Matera.

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