Il pellegrinaggio d’un tempo: un racconto non troppo immaginato

Rosa lasciò il piccolo Nino di 15 mesi a dormire nella culla di legno, avvicinandola con cura al letto della madre che sonnecchiava come le volpi, un occhio aperto ed uno chiuso. Si avviò di corsa, anche se doveva fare solo pochi passi, per raggiungere Tonio che era uscito di fretta, silenzioso che aveva attraversato le brume mattutine di quel settembre, solcandole e fendendole con la sottile ruota anteriore della sua bicicletta, così di fretta che aveva dimenticato sul tavolo la borsa di tela con le provviste.

            Altre venti bici, all’alba, di venti devoti, preparati, speranzosi e consapevoli delle difficoltà di un pellegrinaggio si ritrovarono alle 5, riunendosi alla spicciolata, salendo il corso o scendendolo. Solo due arrivarono dall’arco del Duomo, un altro, l’ultimo, da via San Michele. E proprio lì, dinanzi alla scalinata della chiesa convergevano tutti; alcune mogli, i panieri sotto il braccio, i sorrisi e le battute argute, rigorosamente in dialetto, si contendevano le attenzioni dei propri mariti, tutti invece a parlare fra di loro della strada e del tempo clemente di quel giorno.

            Tutti, da Altamura, in onore di un santo, di un’idea di una devozione, sarebbero andati al Monte che per eccellenza dedica al santo Arcangelo onori e incensi: la caverna di Monte Sant’Angelo. Li attendeva una grotta, un anfratto con una lunga storia di apparizioni e miracoli, al giovane pastore Garganus, che avrebbe visto il Celeste Soldato, mentre era alla ricerca di un armento.

            Rosa raggiunse Tonio e gli porse l’involto di tela, con le provviste: “L’hai scordato anche oggi!”, rimbrottò al marito, con un broncio che non sapeva fare. Lui lo prese e lo sistemò sul portapacchi posteriore, e con gli occhi chiese se insieme al pane ci avesse messo anche la provola: a quello sguardo Rosa rispose con un “Siiine” che fu ascoltato anche dai cani che si avvicinavano dal monumento della Piazza Duomo, annusando il cibo e scodinzolando ruffiani. Il cibo doveva bastare per il pranzo e per la cena che avrebbero consumato in una grande sala a circa 100 metri dalla basilica, che aveva visto pellegrini e viandanti avvicendarsi per secoli sotto le sue ampie volte.

            Nel gruppo di altamurani erano tutti veterani delle due ruote, allenati e devoti, cresciuti bene sotto le cure del parroco della Cattedrale, alcuni di loro anche figli degli ultimi adepti della Confraternita che era venuta su a colpi di processioni e preghiere, sotto l’egida affatto rassicurante dei teschi con le orbite incavate, scolpiti sugli stipiti del portale della Chiesa. Otto ore più in là, un’altra chiesa, un’altra storia, un polo magnetico che richiamava anche gli altamurani.

            Partirono e arrivarono, come sempre, pregando senza parole, senza voce nell’ultimo tratto di strada, in salita, che il sole non scottasse troppo, che nessuno forasse, che nessuno si sentisse male, che tutti ce la facessero, che il Santo li proteggesse, loro, i bambini, le mogli, il poco denaro che avevano insieme alla loro voglia di riscatto e di benessere.

            Passarono la sera e la notte a Monte Sant’Angelo, dopo i riti e le preghiere, andando da un parente di uno dei pellegrini “a ruote” che li accoglieva come sempre, in una piccola masseria fuori porta, offrendo i pagliericci per dormire, le mozzarelle di giornata e il pane duro, di grano, lievitato poco, che però assumeva un sapore di buono una volta intinto nel vino vecchio.

            E tornarono, ripercorrendo la salita al contrario, scendendola non troppo di corsa per non bruciare i freni, immettendosi sulla strada che dalla costa li avrebbe spinti nell’entroterra, come il vento sospinge le vele di un brigantino. 

            Con eleganza e silenzio si fermavano alle porte di Barletta a bere e dissetarsi, alla fontana che conoscevano, di lì tornando verso Ruvo, e poi scendendo dopo Altamura, nei giorni prossimi al 29 settembre, organizzando il pellegrinaggio per poter lavorare e dar retta al tempo dedicato al Santo, programmando per il sabato e la domenica più prossimi al giorno di festa.

            Tutti arrivarono la sera, stanchi e sfiniti, alle porte di Altamura, per poi convergere nuovamente da San Michele, punto di partenza, di arrivo e di ritorno.

            Uno di loro aveva telefonato al parroco, che avvisasse le famiglie che tutti erano in forma e in sella e che di lì a due ore sarebbero arrivati a casa, chiamando in fretta dal telefono a gettoni di un piccolo bar di Ruvo. La piccola banda di bassa musica accolse gli eroi, che brandivano i pennacchi colorati di piume di struzzo, che portavano in dono alle proprie famiglie -una era per il prete- che avrebbero messo all’ingresso, quasi un simbolo di protezione, metà pagano e metà no. I bambini li sventolavano fieri, urlando “papà è arrivato per primo”, zittiti dalle madri che abbracciavano i toraci sudati, gli occhi in festa dei coniugi eroici.

            Rosa attese Tonio un po’ più degli altri, ma eccolo! Era in arrivo con la bici sulle spalle, aveva forato proprio all’inizio del corso. Appena si videro lei, quasi tremando, gli chiese cosa fosse successo con un secco “Beh?”, cui lui rispose: “Ti giuro, non ho bestemmiato, avrei rovinato tutto!” e così silenziosi come sempre si avviarono verso casa dal piccolo Nino che li attendeva sull’uscio, scostando la tendina nervosamente. Quel giorno speciale, Tonio decise di non imprecare più, Nino imparò a camminare e Rosa si rese conto che amava la sua vita.

Giuseppe Laquale

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