Minervino Murge, terra di basilischi, tra storia antica e moderne questioni sociali

Minervino Murge ha principalmente un’economia agricola e pastorale. Nel suo territorio, peraltro, sono disseminate 50 cave di marmo dalle quali sono state estratte fino a pochi anni fa alcune varietà pregiate della “pietra di Trani”. Quella pietra non è stata solo venduta a commercianti e costruttori esterni all’area, ma è stata utilizzata per conferire alla città un aspetto di solidità e di bianco splendore che cattura lo sguardo dell’automobilista di passaggio diretto al casello autostradale di Canosa. Fa parte del suo territorio la Diga sul torrente Locone, che è la seconda diga in terra battuta più grande d’Europa. La costruzione dell’invaso ha costituito un’opportunità di sviluppo economico e tuttora fornisce vitale sostegno all’agricoltura della zona e all’Acquedotto Pugliese. Tuttavia, quando si parla di Minervino si pensa ai funghi cardoncelli e all’olio di oliva che risultano tra i più prelibati prodotti per la gastronomia.

          Secondo le ricostruzioni storiche la città fu fondata 2 mila anni prima di Cristo dalle popolazioni japige. Secondo una leggenda, invece, Minervino è sorta nel III sec. a.C. ad opera di alcuni legionari romani scampati alla battaglia di Canne: questi si unirono alle pastorelle della Murgia e celebrarono il matrimonio in una grotta dedicata alla dea Minerva, l’attuale Grotta di San Michele. La popolazione di Minervino, afflitta da pesanti condizioni sociali, ha conosciuto una storia tumultuosa: le incursioni saracene, i numerosi passaggi di proprietà dai principi Del Balzo Orsini ai nobili aragonesi, ai Pignatelli, ai Carafa, ai Tuttavilla. Ha partecipato ai moti popolari del 1799 e a quelli del 1898 durante i quali furono uccisi tre proprietari terrieri. Nel 1945 a Minervino scoppiò una rivolta contro lo Stato italiano a causa dell’arresto di numerosi paesani accusati di furto e di renitenza alla leva. La rivolta fu sedata dopo cinque giorni con l’intervento dei carabinieri e grazie alla mediazione dei politici e dei segretari del partito comunista di Andria e Bari. Alla vittima dei disordini, Michele Colia, è dedicata una lapide commemorativa.

          Di notevole interesse è il centro storico medievale, denominato “Scesciola”, dove, si narra, nell’800 abitava una famosa veggente, nella cosiddetta “Casa delle Streghe”, che forniva i propri servigi persino agli Zar di Russia. Da non dimenticare il Castello del XIV sec. che svetta sul centro abitato e il Faro della Villa Comunale, alto 32 metri, fatto erigere durante il regime fascista e ora dedicato ai martiri di Puglia.

          Lo sviluppo economico e il riscatto sociale di una comunità presentano spesso un duplice risvolto. E’ il caso di Minervino. Da un lato, infatti, dobbiamo richiamare i progressi conseguiti con l’apertura della Strada Regionale n. 6 a quattro corsie che collega la Murgia Occidentale all’Autostrada A14, nonché con gli interventi di riqualificazione urbana che hanno messo in luce il potenziale attrattivo del centro abitato. Altre opportunità sono state offerte, come detto, con la costruzione della Diga sul Locone e da ultimo con l’installazione di un grande parco eolico e di impianti fotovoltaici, di cui uno del tipo “ad inseguitore solare”. Dall’altro lato, bisogna pur constatare che le nuove dotazioni infrastrutturali non sono riuscite a bloccare il fenomeno dello spopolamento, visto che gli abitanti sono calati da 20.772 nel 1951 agli attuali 8.533. Un vero e proprio esodo che durante le decadi del boom italiano ha privato la cittadina della sua anima bracciantile, mentre nelle successive ha alimentato l’emigrazione delle categorie sociali più evolute.

          Nel film “I basilischi” (1963) di Lina Wertmuller, girato prevalentemente a Minervino, il paese veniva presentato come l’esempio dello stato di arretratezza del Sud Italia. I giovani passavano gran parte del tempo libero nella piazza del paese, al sole (da cui il titolo del film, poiché i basilischi sono una specie di lucertole), con tanti discorsi sul desiderio di evadere da quella noiosa realtà, che non offriva alcuna prospettiva per il futuro. Ma in verità essi erano come imprigionati nella loro stessa pigrizia. In quella medesima piazza passeggiavano o stazionavano numerosi braccianti agricoli, il capo coperto con berretti e cappelli, ancora lì a rivendicare il diritto a un trattamento migliore non essendo state determinanti le lotte e le vittorie conseguite con le proteste sindacali degli ultimi anni quaranta. Ma nessuno dei giovani, alla domanda di alcuni turisti provenienti da Roma, mostrava di conoscere i fatti accaduti nel 1947 nella vicina Cerignola.

          Le signore di Roma restarono colpite dalle facce dei cafoni e dal cattivo odore che si avvertiva in tutto il paese. Per loro quella che osservavano era una civiltà arcaica, incomprensibile, difficile da giustificare. Stimolarono il giovane universitario Antonio, figlio del notaio, a lasciare la facoltà di giurisprudenza di Bari per andare a studiare a Roma. Ma l’intento si rivelò fallimentare, in quanto Antonio ritornò al paese abbandonandosi alla vita di prima. Pure il suo amico Francesco, ragioniere figlio di un piccolo proprietario di terreni, si arrese di fronte alle prime difficoltà incontrate nel tentativo di costituire una cooperativa per la produzione del salamino piccante.

          Chi l’avrebbe mai detto che quel borgo di braccianti, costruito tutto con la pietra di Trani, avrebbe in seguito acquisito l’originale bellezza che i turisti di oggi ammirano?  Minervino è ora più bella che nel film, ma si è svuotata: i lavoratori in un graduale inesorabile viaggio hanno abbandonato la piazza e sono andati a riempire Mirafiori, l’hinterland milanese, le baracche della Germania. Senza neanche un ritorno per ampliare la comunità, senza neanche il flusso vivificante delle rimesse finanziarie.

          Il film lasciava intuire il destino di quella popolazione. Negli anni sessanta le posizioni sociali – in primis i possidenti e i notabili del paese che generavano reddito e caste professionali, sullo sfondo le classi più deboli, certo non per prestanza fisica, che stentavano a far quadrare il bilancio familiare – erano ancora tra loro molto distanti, nonostante le lotte bracciantili del 1947 e le prime conquiste sindacali. Nel film un proprietario terriero si vanta di aver fatto deviare il percorso di una strada nuova in costruzione in modo che rimanesse lontana dal podere, perché temeva che i lavoratori ingaggiati potessero essere distratti dai passanti e dal traffico e quindi rendere di meno. Così come la contessa D’Andrea, di origine pisana – l’unica di tutto il paese a non avvertire il bisogno di schiacciare un pisolino subito dopo pranzo durante la controra estiva, intenta ad aggiornare il proprio libro contabile – preferiva far crescere la gramigna sui suoi terreni piuttosto che assecondare le richieste, secondo lei esose, dei braccianti.

          Non restavano allora che i soliti refrain dei cafoni in posa sotto il sole della piazza, avvezzi a sciorinare le proprie lamentazioni; mentre i giovani, i pochi diplomati o studenti universitari continuavano ad aspirare a una vita migliore, ma in realtà non si attivavano in alcun modo, passeggiando liberamente all’aperto con l’immancabile stecchino tra i denti ed escogitando strategie per strappare un sì a qualche ragazza. Tutti basilischi, ovvero lucertole esposte al sole. Tutti sempre a rincorrere il progresso che in altre parti d’Italia si era già realizzato. Quest’ultima non è una battuta del film, è una mia amara constatazione, in quanto a Minervino, come in altre località del Sud risparmiate dal calo demografico, l’obiettivo di superare il ritardo di crescita economica e sociale rispetto alle regioni italiane ed europee più evolute resta un obiettivo ambizioso, impossibile da raggiungere senza una adeguata programmazione pubblica.

Giuseppe Marrulli  

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