La pandemia aggrava la scarsità dell’istruzione in Italia, siamo al penultimo posto

Un giorno saremo chiamati a rispondere in merito al comportamento tenuto e alle decisioni prese durante la pandemia. Ll’affollata comunità degli amministratori centrali e periferici farà i conti, cifre alla mano, soprattutto, con l’opinione dei cittadini che potranno elargire consensi sufficienti per una riconferma nelle cariche, oppure formulare un giudizio di condanna che porti all’avvicendamento. Il nostro governo ha risposto meglio nella prima ondata del contagio. E anche gli italiani. Dall’autunno, però, la situazione è peggiorata, i cittadini hanno dato segni di insofferenza e si sono registrati ritardi, tentennamenti, errori anche da parte degli scienziati.  Il Manzoni scrisse della peste del 1630 e a proposito del diffondersi di voci, accuse e qualsivoglia critica, suggerì un uso accurato delle parole: “… osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare”.

          Osserviamo, quindi, a grandi linee quello che avviene nel mondo della scuola. In occasione delle consultazioni del nostro governo per il Piano di ripartenza dell’economia, più parti hanno sottolineato l’esigenza di destinare risorse per il recupero nel settore della ricerca e dell’innovazione, in quello della digitalizzazione e, in ultima analisi, nell’istruzione. Basti pensare che l’indicatore europeo del grado di digitalizzazione DESI (Digital Economy and Society Index) colloca l’Italia al 25° posto tra i 28 stati membri dell’Unione Europea.  

            Il basso livello delle competenze digitali è solo un aspetto dell’insufficienza delle risorse impiegate nell’istruzione e, di conseguenza, nella formazione di quello che viene definito il capitale umano. Altre statistiche rafforzano la sensazione di inadeguatezza dell’istruzione in Italia. Gli italiani nella fascia di età 25-34 anni in possesso di un titolo di studio universitario sono appena il 28 per cento, contro una media OCSE del 45 per cento e punte superiori al 60 per cento in Canada, Giappone e Corea del Sud. L’Italia è al penultimo posto nella classifica. Nella stessa fascia di età i giovani privi di diploma di scuola superiore sono il 24 per cento a fronte di una media del 15 per cento. Mentre il 22 per cento della popolazione dai 15 ai 29 anni è costituito da giovani che non studiano né lavorano né seguono corsi di formazione. Si tratta di 2 milioni di giovani. Al Sud sono il 33 per cento.

            Evidentemente ci sono cause serie che frenano i giovani dall’intento di proseguire gli studi: il titolo di studio in Italia non ottiene il giusto riconoscimento economico nel mercato del lavoro; le risorse investite dallo Stato e dalle famiglie nell’istruzione sono ancora esigue; i percorsi formativi non sono molto vari e tali da rispondere alle esigenze dei settori che offrono posti di lavoro. Aggrava il quadro delle considerazioni svolte l’insufficiente grado di apprendimento degli studenti italiani rispetto agli studenti di altri paesi. Il PISA (Programme for International Student Assessment) valuta gli studenti italiani di 15 anni al di sotto della media OCSE in lettura, matematica e scienze. E tale risultato è dovuto principalmente alla situazione del Mezzogiorno.

          Anche gli adulti italiani, in ciascuna fascia di età, presentano performance peggiori, per la diffusa mancanza di competenze nella lettura e comprensione dei testi, nell’utilizzo della logica e nell’analisi. La situazione non è più rosea nel campo delle conoscenze finanziarie, essendo l’Italia al 23° posto su 26 paesi.

            A causa delle restrizioni adottate per bloccare la diffusione del contagio, gli studenti accuseranno un danno elevatissimo nel grado di apprendimento, nel conseguimento di titoli di studio superiori e, quindi, nel raggiungimento di adeguati livelli reddituali. Il ricorso alla didattica a distanza rende insopportabile la differenza tra quanti possono contare su un valido sostegno in ambito familiare e gli altri. Ecco perché l’istruzione deve rivestire un ruolo centrale. La conoscenza va intesa nel suo significato più ampio, rimuovendo gli steccati tra i saperi che limitano la crescita culturale, come quello tra la cultura umanistica, di cui abbiamo un’eccellente tradizione, e quella tecnico-scientifica sulla quale effettuare più consistenti investimenti per il futuro.

          Natalino Irti su “Il sole 24 Ore” del 30 dicembre 2020 riporta alla memoria un’altra Italia, dove la scuola pubblica determinava e favoriva la mobilità sociale. Più esattamente erano determinanti i due istituti della scuola pubblica e dell’esame di stato. Quella era una scuola, a cui tutti potevano accedere, superiore a diseguaglianze di classe, severa nel sottoporre tutti i giovani a un conclusivo giudizio di garanzia. A questa scuola moltissimi italiani debbono il passaggio a più elevate categorie sociali: dalla coltivazione dei campi al commercio, dall’umile bottega di paese alle libere professioni, dalla laboriosità artigianale alla moderna impresa tecnologica. La laurea era festeggiata come simbolo della svolta.

            Con la riforma del 1923, frutto del contributo di pensiero di Benedetto Croce e Giovanni Gentile, veniva introdotto l’esame di Stato, una prova necessaria per valutare le conoscenze e il carattere, la prontezza intellettuale e la capacità intuitiva degli studenti.

          Per riportare l’Italia al rango di grande paese in grado di competere con la civiltà e la cultura delle nazioni più accreditate occorre ora estendere gli interventi formativi della scuola agli sviluppi della tecnologia. Senza distruggere la tradizione del passato, ma mirando a un equilibrio accorto tra le varie discipline in programma, che è poi la giusta mediazione per conseguire pur sempre quell’uguaglianza sociale e quella “parità dei punti di partenza” che sono state sempre al centro della tradizione culturale italiana.

Giuseppe Marrulli  

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