Giuseppe Bolognese, La sfilata di Maddalena

I vecchi compari, l’estate,  sedevano fuori, al sole, sugli sgabelli di fèrula o di legno, appoggiati  alla parete della Cantina Ferrulli, dominio incontrastato del Ganimede Filippo. La cantina era un ampio locale seminterrato con accesso dallo Scalamorino o Scalambrino (via Santa Croce negli stradari), nome che gli anziani ricordano bene: u skalamurìnə, etimo incerto, verisimilmente derivato dal Latino medievale scanabrinum, che vale “persona scaltra, accorta”, ma anche “ladro astuto.” Peraltro, la strettoia appartata lungo il Conservatorio della Pietà di Santa Croce e la Kandìnə də Fərruddə si prestavano ad avventure illecite, o  al limite della legalità, quantomeno audaci… (Nella storia di Altamura il seicentesco conservatorio – ancora attivo nel Novecento – resta un fulgido esempio di solidarietà civica e cristiana rivolta alle ragazze indigenti).

Il cantiniere riempiva la grande brocca di terracotta smaltata (u’ rəzzùlə du’ myərə) e la posava sul tavolino, davanti ai compari compiaciuti. Tra un sorso e l’altro, quando capitava che una bella donna procace sfilasse davanti all’allegra brigata di baccanti,  c’era il certame della improvvisazione poetica, sorta di gara al distico più audace, tra la pochade e la lauzor dell’amor-cortese. Risale alla seconda decade del Novecento la coppia di distici conservata saldamente nella memoria portentosa del mio piucchecugino novantacinquenne, Giovanni, e la trascrivo qui appresso:

Ueh! Matalénə, ciakkə tiənə ‘npiəttə?

Sò ‘ndronərə o sò sayittə?

[O Maddalena, che hai sul petto?/ Sono tuoni o sono saette?]

Superata la schiera euforica di giudici monocratici in allegria (‘mbrəscizzə nella koiné altamurana), Maddalena callipigia si sentiva domandare:

Ueh! Matalénə, ciakkə tiənə rétə?

Yé kùlə o yé kazzapétə?

[O Maddalena, che hai sul didietro?/ È culo o è schiacciapietre?]

È quasi superfluo chiosare che le grazie prorompenti di Maddalena non potevano passare inosservate davanti allo sguardo àvido e ricco di antiche memorie… Non mi risulta che ci sia memoria scritta di questi versi; epperò ritengo utile e doveroso fermare su carta e tramandare testimonianze di notevole interesse letterario oltre che folclorico. Intanto va notato che gli autori di questi bozzetti lirici sono prevalentemente muratori anziani, senza escludere gli altri mestieri, per i quali la cantina era luogo di aggregazione e di svago, di bicchierate innumeri, ma anche mercato di lavoro. Ricordo con soddisfazione la spiegazione data da Mastro Tommaso a mia madre durante la ristrutturazione – intorno al 1960 – del nostro appartamento al piano superiore di Palazzo Ponzetti-Ricci-Priore. Una parete interna di spessore superiore a un metro dava l’impressione di non essere a piombo, ma Mastro Tommaso rassicurò mia madre senza esitazione, inappellabilmente: “E che volete, signora, ci hanno lavorato dopopranzo!” Traduco: “L’opera è stata realizzata nelle ore pomeridiane, dopo diversi bicchieri di vino, quando la presenza del filo a piombo diventa accessorio trascurabile (e trascurato)”.

La gentildonna lodata dall’anonimo poeta-compare è una non identificata né identificabile Maddalena; verisimilmente, si tratta non di una persona realmente esistita, ma del nome di scena della bellezza di turno che sfila sul palcoscenico  della strada. L’archetipo del personaggio è certamente Maria di Magdala, la Maddalena – di cui parlano tutti i Vangeli canonici e diversi apocrifi, tra i quali  quello della stessa Maria di Magdala  – dato il ruolo di primo piano nella missione del Cristo.

Non può sfuggirci la musicalità, il ritmo accelerato di ciascun distico: endecasillabo seguito da novenario in un crescendo semantico degno della più nobile tradizione poetica. Dai tuoni ai fulmini nel primo distico; dai glutei turgidi e possenti allo schiacciapietre nel secondo: bella sfida per l’aria più nota del don Basilio rossiniano… Pensiamoci un attimo: è del tutto probabile che l’autore dei distici  fosse ignaro di qualsiasi nozione di metrica, con un livello d’istruzione non superiore al primo biennio della scuola elementare, se non addirittura analfabeta; ne risulta l’uso non contaminato e perciò più autentico del proprio vernacolo, della lingua madre. Ne consegue che non solo la musicalità intrinseca del verso, ma anche gli accorgimenti tecnici della versificazione sono accessibili a tutti coloro cui sorride Apollo. Ecco dunque una prova ulteriore, se mai ve ne fosse bisogno, che i poeti di scuola sono tanti, ma una scuola di poesia nel senso platonico non c’è mai stata: il daemon della poesia è un dono che – assolutamente gratuito – arricchisce lo spirito, ispirandolo con il sorriso di Apollo.

Di minore interesse metrico ma senza dubbio di notevole spontaneità poetica è la lode ammirata che mia madre mi raccontava per averla ascoltata dalla viva voce di contadini dalla schiena curva – dopo decenni di consuetudine quotidiana con la zappa – che si beavano alla vista della Cerere (madre del succitato piucchecugino Giovanni) che attraversava la piazza recando a mano la sua accompagnatrice, sorellina undicenne minore di lei di undici anni:

Ma vitə quand’ebbèllə!

Cə yerə spikə də rènə

Quanda farinə avaym’affè!

[Ma guarda quant’è bella! / Se fosse spiga di grano / faremmo tanta farina!]

Felicissimo incontro dell’arguzia di Marziale, della ricercatezza sublime di Catullo e dell’istantanea geniale di Orazio; sintesi lapidaria del contadino: zappa grossa e cervello fino!

Consimile ma molto più rischiosa è l’invenzione, la “trovata” poetica mirata alla persuasione delle masse; messaggi spesso intrisi di suggestione subliminale: propaganda, pubblicità e non di rado demagogia, specie nella comunicazione politica che è confronto democratico solo nell’apparenza.  È di questi giorni la notizia del veto imposto ad una azienda pubblicitaria che vuole promuovere un’eccellenza della gastronomia toscana, il panino con la finocchiona, gustoso salamino condito con semi di finocchio e vino rosso, vanto della tradizione. Han fatto il conto senza l’oste: è un grave affronto  al “politically correct”, tanto peggio per la pur rinomata leccornìa della tradizione culinaria toscana. Me ne ha parlato pochi giorni fa un vecchio e diversamente giovane amico che abita in Tasmania da oltre quarant’anni. Ebbi un ruolo nel suo trasferimento all’Università della Tasmania da Adelaide insieme con sua moglie, la dolcissima Ariella ora in congedo permanente da questo pianeta. Sono passati tanti anni, ma la nostra amicizia è destinata a superare il traguardo dell’immanenza. Ma questa è materia per altra riflessione.

Ho verificato la notizia passatami dall’amico e gli ho scritto, divertito:

qui abitiamo all’ombra di un seicentesco monastero di  clausura e la pasticceria annessa al monastero vende allegramente tette di monaca…  t’è kapì?

Mi ha risposto tempestivamente, nonostante le dieci ore circadiane che ci separano:

Be’, proponi loro di vendere anche “palle/uova di monaco” per evitare accuse di discriminazione…

Ero con Ariella a Città del Messico in un ristorante e leggo sul menù “criadillas fritas”; chiedo al cameriere col sombrero che vuol dire. Huevos de toro, señor…

Le ho ordinate, con grande imbarazzo di Ariella, che le aveva viste in gioventù nella vetrina di un ristorante in Moldavia ed è stata lei allora a chiedermi cos’erano. I casi della vita! 

Buon appetito!

Al comprensibile imbarazzo di Ariella, pudìca fino alle midolla fin da quando l’ho conosciuta (mi sembra solo ieri) va aggiunto qualche dettaglio. Si era fidanzata con il fortunato giovanotto romeno, aduso alle scelte inesistenti del regime comunista, ed era andata a trovarlo in Romania, partendo dalla sua Milano dopo l’ottima formazione nel Seminario di Filologia Romanza alla Statale. Ero stato ospite di quel Seminario nel 1974-75 ed ero rimasto molto colpito dalla figura e dal magistero di Alberto Del Monte, che era alla guida del Seminario. Del Monte aveva firmato compiaciuto la tesi di Ariella, ma io l’avrei incontrata solo cinque anni dopo, all’altro polo, come dire finisterrae per un indigeno dello Stivale.

La gita dei fidanzati in Moldavia e il pranzo a Suceava era agevolato dal fatto che Teodor accompagnava una straniera; in realtà il giovanotto rischiava di brutto perché non aveva chiesto nessuna autorizzazione. Sapeva bene di rischiare, ma la posta era molto alta e si sentiva protetto dal duplice profumo dell’amata: il profumo dell’innocenza di lei e il profumo della libertà che gli si prospettava accanto a lei, lontano dal regime che l’aveva castigato fin dalla prima infanzia. Agli stranieri il regime consentiva molta libertà di movimento, propaganda pura s’intende, ma solo così Teodor avrebbe potuto permettersi il lusso di un pranzo in ristorante “di lusso”, servito da camerieri eleganti, con tanto di parannanza. Mi ricorda lo stato d’animo di Micuccio Bonavino con le Lumìe di Sicilia di Pirandello. Solo che le lumìe di Sicilia erano i “trofei” di toro a Suceava, le fudulii moldave che la coppia felice avrebbe visto tanti anni dopo nel ristorante di Città del Messico, note con eufemismo da toreador: criadillas fritas, le servette fritte strappate al toro, privato dei trofei… Immagino divertito il sorriso frenato di Ariella, nascosto dal ricamo di una mantilla messicana.

Mi domando, inevitabilmente: come si còllocano questi ricordi nell’ambiente linguistico che viene martellato oggi dalla campagna del “politically correct”, mascherata con etichette di egalitarismo, pari opportunità e solidarietà che appartengono a ben altri e più nobili scopi del vivere civile?

*Alla memoria commossa e gioiosa

delle sorelle Elvira e Caterina

Giuseppe Bolognese, febb. 2023

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