I funghi cardoncelli

È tempo che l’autunno s’imbelletti, come una donna che ricorre ai suoi trucchi per rinnovare e conservare la sua bellezza. Lo fa con una cosmesi che non costa nulla, tanto è naturale e spontanea: complici una pioggia di foglie secche e una miriade di funghi di millanta specie, colori e sapori. Le prime sono il sogno infranto dell’albero, mettono malinconia e hanno odore di cose morte; ai secondi dobbiamo la gioia della vita che rinasce. Popolo misterioso e affascinante questo dei funghi, pare che attendano il segnale di entrare in scena per spuntare dappertutto, preziosi come calici, letali come coppe avvelenate, con una profusione di forme strane, atteggiamenti contorti, odori soavi e ripugnanti. Se rispetto si deve a tutti, buoni e cattivi, riverenze e inchini sono d’obbligo a sua maestà il porcino: è il re del bosco, solitario e ampolloso, spocchioso e gigionesco, ha il cappello che ricorda il colore della tonaca di un cappuccino, è pingue come l’oste e d’intenso profumo. Lo affianca negli affari, non di stato ma di cucina, il suo segretario particolare, nella fattispecie l’ovulo buono che da adulto s’ammanta di rutilanti colori giallo e arancione, quasi fosse un curiale che ha appena ricevuto la berretta cardinalizia. Due eccellenze a cinque stelle che chef stellati s’incaricano di esaltare in piatti sontuosi per vip gonfi di soldi, con al seguito scollatissime “donnazze” d’improbabile virtù. In tale contesto ovviamente si pasteggia con vino d’annata che un ossequioso e rammaricato cameriere mesce tenendo la bottiglia per il culo e non per il collo ad evitare che il calore della sua mano ne alteri la temperatura. Sono senza dubbio strepitose annuità culinarie. Ma vuoi mettere per noi gente alla buona e di rustico palato, una padellata di cardoncelli arroventati da messer peperoncino, capace di scuotere dal torpore tutto, ma proprio tutto, che sia da tempo assopito? Con buona pace del “vippazzo” che si porta dietro quel che sappiamo. I micologi ci assicurano trattarsi del pleuroto, nato sulla radice vecchia dell’eringio o della ferula: poco appariscente, non aereo, umile e pudico, e così saporito che ti vien voglia di andare a cercarlo nelle brumose giornate di novembre. Ci si sveglia per tempo e già alle prime luci dell’alba frotte di appassionati si aggirano simili a fantasmi tra il pietrame delle Murge ancora assonnate, a caccia del tesoro. Non appena al brillio della rugiada un esemplare si disvela, il cuore sobbalza come aver trovato una gemma. Se la fortuna è amica chissà quante famigliole nello stesso posto di cui non si dice niente a nessuno! Il bello dei funghi è lì, nel cercare, nell’esplorare tra sassi e fili d’erba e tenere la scoperta per sé a costo, dopo averli mangiati, di portare il segreto nella tomba. Nel frattempo che il cielo s’imperla sempre più e ti avvolge il profumo del serpillo e del mentastro, a ricordarti quanto sia salutare gironzolare a respirare aria pulita, Dio solo lo sa! Una volta a casa, si mostra soddisfatti il bottino e qualunque ne sia la quantità, poca o abbastanza, si aspetta solo che si compia l’ultima liturgia: la padella.

Per l’occasione il mio amico C. dell’omonima enoteca C.B., mi propone un lambrusco di Sorbara che al solo stapparlo ti mette allegria; in alternativa una vernaccia dal colore ambrato, calda e suadente come una ragazza innamorata. Per conto mio opterei per un rosato del Salento, un vino morbido, da non bersi distrattamente, sobrio, arrotondato, che va giù che è un rosolio, tranquillo quanto basta ad accompagnare i miei pensieri e quelli altrui. Pensare che sincero com’è uno magari lo crede da poco e invece gli vien fuori un gran carattere, onore e vanto della sua terra. E allora prosit, e che il coppiere degli dei non abbia la mano tirata.

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