Renzo Paternoster, U munaccide: la storia del folletto “terrone” dispettoso

Se venite al Sud e siete fortunati (ma già lo siete per essere venuti “qua giù”!), potete aver la gioia di incontrare il “monacello” o il “monachicchio”, nelle forme italianizzate, o Munaciell, Munacidd, Munacidde, Munacedde, Municeddhu, Municaridde, Laurieddhu, Scazzamurrieddhru, Mazzemarill e in altre varianti dialettali. Certo vi farà qualche dispettuccio, ma se riuscite a toglierli il cappello potete aver in cambio un tesoro.

            Carlo Levi ne narra la versione lucana nel suo Cristo si è fermato a Eboli: «I monachicchi sono esseri piccolissimi, allegri, aerei: corrono veloci qua e là, e il loro maggior piacere è di fare ai cristiani ogni sorta di dispetti. […] Portano in capo un cappuccio rosso, più grande di loro: e guai se lo perdono: tutta la loro allegria sparisce ed essi non cessano di piangere e di desolarsi finché non l’abbiano ritrovato».

            Narra Matilde Serao nelle Leggende napoletane (1895) fa nascere questa figura folklorica nel 1445, nella capitale del Regno di Napoli. In seguito a un amore contrastato tra la figlia di un mercate (tale Caterina Frezza) e un garzone della città (Stefano di Mariconda), quest’ultimo è ucciso. La donna incita per il dolore si rifugia in un convento dove diede alla luce un bimbo deforme, con il corpo piccolissimo. Le suore la consigliarono di votarsi alla Madonna, affinché desse una fiorente crescita al bambino, così ella fece il voto facendo indossare al bimbo un abito nero e bianco da piccolo monaco. Poiché viveva nei tunnel sotterranei (secondo altre leggende locali di tutto il sud italiano, in pozzi, grotte o boschi), conosceva l’ubicazione di un tesoro (antico o dei briganti).

            Dopo un po’ di anni, il piccolo monachicchio scomparve, per poi forse essere ritrovato cadavere in un canale. Dopo la sua morte il piccolo monaco diventò uno spiritello, iniziando ad apparire al popolo napoletano per fargli piccoli dispetti, vuoi per vendicarsi per l’indifferenza mostrata nei suoi confronti da vivo, vuoi perché conserva ancora l’indole dispettosa e da giocherellone tipica dei bambini. Per questo molti anziani narrano di averlo visto nelle stalle, dove si divertiva a intrecciare la criniera dei cavalli, oppure a tirar via le lenzuola dei letti, a far cadere i panni stesi, a nascondere oggetti, a far cagliare il latte, a togliere il respiro posizionandosi sul petto di una persona mentre dorme, a produrre ronzii nelle orecchie.

            Il monacello è questo e molto altro ancora, secondo la cultura popolare di ogni zona geografica. Molto presente nella fantasia popolare, lo spiritello vestito da monaco ha guadagnato numerose citazioni letterarie, oltre a quella di Carlo Levi già riportata.

            Tra le più importanti c’è quella di Antonio Petito in Nu munaciello dint’a casa ‘e Pullecenella (1901), oppure quella di Eduardo De Filippo in Questi fantasmi! (1945), oppure ancora di Roberto De Simone che nell’opera La gatta Cenerentola (1976) presenta il brano La canzone del monaciello.

            La leggenda narra che se si riesce a rubargli il cappello, pur di riaverlo sarebbe disposto a svelare il luogo in cui si trova un tesoro. Ho sperato di incontrare u’ Munacidd (come si chiama a Gravina in Puglia), predisponendomi a qualche suo scherzetto, soprattutto per tentare di rubargli il suo cappello (a chi non fa gola un tesoro!), tuttavia è lui ad aver fatto a me la più cattiva delle burle: non è mai venuto!

Renzo Paternoster

 Illustrazione del Munaciello di Daniela Matarazzo

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