I Fratelli Cicolecchia cantano da mezzo secolo la dignità dei braccianti

Quando la protesta lascia la piazza, in quanto non ha più ragion d’essere la rivendicazione di diritti e libertà che hanno trovato intanto consacrazione in una organizzazione più democratica della società, subentra, complice l’effetto pacificatore e rasserenante provocato dal fluire del tempo, una visione più romantica e poetica dei vecchi tempi, intrisa di profonda nostalgia non per le sofferenze e i patimenti dell’epoca ma per i sentimenti che sostenevano e animavano la coscienza del popolo. La nostalgia è il fulcro intorno al quale si sviluppa il canto popolare, basti pensare al fado portoghese, alla morna di Capo Verde cantata da Cesària Evora, alla saudade brasiliana, che sono esempi di come il canto popolare possa assurgere a canto nazionale. Sono le vette elevatissime cui è arrivata la musica popolare: il fado portoghese è stato riconosciuto nel 2011 dall’UNESCO patrimonio intangibile dell’umanità.

          Non esiste una “tutela geografica” del canto popolare, una sorta di DOP che attribuisca ai canti dialettali la dignità di composizioni musicali accompagnate da testi che sono l’espressione di determinati contesti sociali. Né mi risulta che le autorità politiche e le istituzioni culturali locali abbiano mai preso a cuore il tema del riconoscimento alle canzoni e ai gruppi musicali di un valore artistico peculiare, da iscrivere nell’albo delle eccellenze del territorio. I canti popolari sono espressione della tradizione contadina e della cultura del lavoro, da Nord a Sud, e possono avere un’ispirazione politica: Addio Lugano Bella (lavoratori cacciati dalla Svizzera), Sciur Padrun da li beli braghi bianchi (le mondine del Piemonte), Vitti ‘na crozza (i minatori della Sicilia), Lu sule calau calau (i braccianti della Puglia salentina).

          I Fratelli Cicolecchia – fin qui mai insigniti di premi o onorificenze da parte di chi ne ha il compito in rappresentanza dei cittadini, nonostante il mezzo secolo di carriera – hanno impresso una svolta negli anni settanta a Gravina e dintorni, quando i canti popolari erano poco più che folclore. 

            Il gruppo, forte della presenza di una voce potente e drammatica (Saverio Cicolecchia), della sensibilità artistica di un professore di musica (Andrea Cicolecchia) e dell’abilità di altri strumentisti, è riuscito a trasmettere lo spirito della canzone in dialetto, che è, giustamente, rievocazione di ambienti familiari e di stili di vita non più ripetibili.

          Il gruppo dei Fratelli Cicolecchia ha portato al successo brani che ci raccontano la società agricola d’antan, semplice e virtuosa, quale era riscontrabile in gran parte dell’Italia, in particolare nelle località meridionali, nel periodo storico che abbraccia molti anni del Novecento, sicuramente quelli tra le due guerre mondiali, i due dopoguerra e la fase che ha preceduto o che è stata contestuale al fenomeno della concentrazione urbana della popolazione, della sua graduale emancipazione e del salto di qualità sulla strada del progresso.

          I canti dialettali non sono altro che i racconti in musica delle esperienze vissute o conosciute in prima persona dagli interpreti/autori per ragioni di età; in diversi casi sono racconti appresi dalla tradizione orale, dagli esponenti delle precedenti generazioni che, adesso, non possono più regalarci la testimonianza diretta dei fatti accaduti nel passato. 

          I canti dei Fratelli Cicolecchia riflettono appieno le tematiche della terra, del lavoro e del pane e, in ultima analisi, della società in cui l’agricoltura giocava un ruolo economico ancora primario. Essi costituiscono ormai la memoria storica dei personaggi, delle atmosfere, delle condizioni di vita e dei sentimenti della nostra piccola comunità rurale. Inoltre, i fatti cantati sono quelli della gente comune, che non è citata nei testi di storia, perciò, a maggior ragione, questi canti ne costituiscono la memoria unica, cioè non rinvenibile in altri atti o documenti. 

          La “Trattoria di zia Rosa” (La candenere) ancora resiste nella sua denominazione a Gravina, ma non diffonde più gli odori del vino, della verdeca, dei cavatelli col ragù di braciole o dell’agnello preparato alla paesana. Il mestiere del cantiniere in quei tempi era in voga. Le cantine erano molto diffuse ed erano luoghi di intrattenimento per uomini non ancora addomesticati all’uso della televisione e delle altre scoperte della tecnica.

          Il mestiere del pastore (U’ Pastoure) contava numerosi adepti nei decenni passati, vuoi per scelta vuoi più facilmente per imposizione, in quanto, come diceva un mio conoscente volato via nel pieno godimento dei suoi cent’anni, allora le pecore erano più abbondanti degli abitanti nei paesi della Murgia. Ora il compito è stato lasciato agli indiani e agli albanesi da parte di chi possiede ancora le greggi. Sarà per la più bassa retribuzione o anche per la mancanza di lavoratori del settore di nazionalità italiana? Non fatevi trarre in inganno dalla musica, che è allegra e accattivante né dal velato doppio senso della situazione. Quella del pastore è una vita da “ultimo” della società: il lavoro predomina e assorbe completamente corpo e spirito. Gli affetti familiari e i piaceri della vita sono completamente annullati dalle condizioni lavorative per nulla rispettose della dignità dell’uomo.

          “Nu sime zappature” era l’affermazione un po’ decisa e un po’ amara gridata da chi tornava a casa solo alla “Quinecine”. Il canto restituisce l’immagine della dura fatica dei tempi addietro, quando lo strumento più diffuso del lavoro manuale era la zappa, simbolo per eccellenza del lavoro agricolo. Lavoro pesante, lavoro disumano, che consentiva il ristoro tra le mura domestiche soltanto dopo due lunghe settimane. Si tornava a casa a piedi oberati dalla bisaccia e dal fiasco e, finalmente, si poteva sprofondare sul pagliericcio di casa.

          Anche Matteo Salvatore, uno dei più conosciuti cantori delle tradizioni popolari, foggiano, ha trattato gli stessi argomenti, tanto che i Fratelli Cicolecchia hanno inserito nel loro repertorio “Lu soprastante”, canto del lavoro di mietitura nei campi di grano, sotto il sole cocente e lo sguardo vigile del sorvegliante, senza potersi dissetare per non essere licenziati. Ci sembra di rivedere la stessa fotografia di oggi del Tavoliere delle Puglie, popolato di visi scuri non per la polvere.

          Per concludere la breve rassegna su alcuni dei brani più importanti dei Fratelli Cicolecchia, ne “La condizioune du bracciande” ricompaiono i braccianti pugliesi ormai scolpiti nella nostra memoria. In questi ultimi tre anni i Fratelli Cicolecchia hanno accompagnato, con i loro canti, le numerose presentazioni del libro  di Michele Gismundo, “La Ricostruzione a Gravina in Puglia 1943-1947”, una monografia sui fatti che sollecitarono i braccianti alla lotta nei primi anni del secondo dopoguerra a Gravina in Puglia.

            La situazione resta vergognosa ancora oggi, abbrutita com’è dagli orari non certo “sindacali” e dall’oppressione dei caporali, che non usano rispetto neanche quando a lavorare sono le donne. Il canto dei Fratelli Cicolecchia è un grido di disperazione per la condizione dei lavoratori agricoli, poveri e sfruttati senza speranza. 

Giuseppe Marrulli

Scatti e video di Carlo Centonze

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