“La rinascita nei deserti”. Buona Natività del Signore, buona rinascita
Il deserto è un punto di partenza. Meglio, di “ri-partenza”. E’ lì, nel mezzo dell’assenza del tutto che si verificano i miracoli migliori, quelli più inattesi. E’più facile stupirsi della nascita di qualcosa, anche solo di una pianta, di un virgulto, di un roveto in un deserto, che in una foresta: nella foresta è scontato, nel deserto è speranza che si fa visibile. La pianta si radica, il virgulto cresce, il roveto brucia, nei deserti, lontano da tutto. Nel deserto domina il silenzio; e nel suo color ocra, nei toni rossastri delle sabbie, Andrej Rublev, iconografo, monaco e santo della Chiesa Ortodossa – forse aiutato dalla sua cerchia più prossima- nel 1420, a circa 10 anni dalla sua morte, immagina e costruisce un capolavoro oggi conservato a Mosca nella Galleria Tret’jakov: la Natività del Signore. Mai visto scenario più affollato e altrettanto silenzioso: nel turbinio delle scene che compongono l’opera e che raccontano, fra vangeli canonici e apocrifi, la nascita del Signore, i personaggi si contendono silenzi assoluti, mai equivoci: la Madre si riposa, stesa, vestita della porpora imperiale, e volge lo sguardo lontano dal Figlio. Lui giace già nel sepolcro, non è più una semplice mangiatoia, ed è in fasce, quieto, come lo sarà una sera di parasceve di un 14 Nisan di circa trent’anni dopo; qui è lindo, lì sarà sporco di sudore, sangue, acqua, terra.
Gli angeli annunciano: ai pastori e ai Magi che arrivano su cavalli in corsa, con le zampe alzate; sia gli uni che gli altri ascoltano, vanno. Senza indugio, senza inutili parole. Il padre Giuseppe, in un angolo, è avvicinato da un pastore, che in realtà è il Nemico, che lo invita a dubitare del mistero che sta vivendo: è l’eterna lotta della razionalità sulla fede, e in silenzio Giuseppe, senza dare spiegazioni prende i suoi, parte, assiste, sostiene. Tace e crede. Il Nemico è l’unico che parla e che argomenta. Nell’angolo opposto le serve lavano il Bambino, in un fumetto anacronistico, non si guardano, agiscono. Al centro in alto, a dividere in due un asse verticale sottolineato dalla luce divina che si dipana e collega il Cielo con la terra, con la testa del Bimbo e con il ventre della Donna.
E di tutto questo, nei toni ambrati della composizione, a stupire è la forza della montagna, le sue aperture e le sue insenature, le sue cime friabili, i suoi arbusti che tanto somigliano a piccoli olivi, a ginepri spinosi, a mirti e pistacchi, a timo serpillo in fiore e a sinuoso finocchietto selvatico. Sembra che la scena si svolga su una murgia nella calura estiva. Poco distante, mi piace immaginare, una masseria, un’altra serie di grotte, una mucca al pascolo, un pastore col suo gregge. Immagino un’immagine. Ma il senso dell’icona è diverso, è tutto teologia scritta in punta di pennello. E qui vale la pena ricordare come il permesso all’uso delle immagini sacre, che oggi riteniamo scontato, è in realtà frutto di un lungo processo che parte dall’VIII secolo, con lotte interne alla chiesa, con movimenti politici e filosofici che si scontravano anche grazie all’ascesa dell’Islam, che proponeva la non rappresentabilità di Dio. L’Incarnato Primo è il Cristo, che nella sua missione di Salvatore si incarna, si rende visibile e pertanto rappresentabile; questo è quanto i padri della Chiesa orientale nella seconda metà dell’ottavo secolo gridavano agli iconoclasti, per difendere la cultura dell’Immagine che si era imposta precocemente nel mondo cristiano, e rischiava con i concetti “spersonalizzanti” del movimento supportato dal pontefice Leone III, quasi di scomparire.
Il pontefice, spinto dai padri dell’Asia Minore che erano venuti in contatto con quelle che, poi, vennero definite eresie, iniziò una campagna di distruzione delle immagini sacre fino a quel momento realizzate (facendo perdere a noi chissà quali tesori) ma fu in seguito osteggiato e le sue posizioni furono riviste. Anche nel monastero di Santa Caterina sul Sinai, dove oggi si conservano tre delle icone più antiche al mondo, alcuni monaci nascosero e difesero quelle rappresentazioni, eseguite fra il IV e il VI secolo. Tutto il mondo cristiano antico si era posto il problema della legittimità della rappresentazione Dio e dei suoi Santi, già agl’inizi della sua storia, arrivando a definire la sottile differenza fra proskinesis (venerazione) e latreia (adorazione) la prima attribuita ai simboli materiali (“bisognosi di cura”, scrivevano, perché importanti segni della catechesi eterna) e la seconda dovuta a Dio solo, attraverso la liturgia; tutto ciò era profondamente incarnato nel tessuto sociale del cristianesimo perseguitato dei primi tre secoli della nostra era, se è vero che già fra il secondo e il terzo secolo le catacombe romane di Priscilla riportavano la più antica immagine della Madre di Dio: le immagini sono da sempre, quindi, una nostra necessità, a costo di rimetterci la vita, a costo di farle al buio di una catacomba o di una grotta. A causa di questi profondi motivi intrecciati nella storia come fili di tessuto finissimo, la rappresentazione delle icone si è rivestita giustamente di “canoni” quasi immutabili, fissi, poggiati su ineccepibili concetti teologici e pertanto eseguiti su una libertà espressiva differente dall’arte occidentale europea. L’immagine sacra è quindi un percorso, storico e di cultura generalmente “alta”, in quanto espressione non verbale, fatta da chi aveva posseduto pienamente le armi dell’istruzione e dedicata a chi non le aveva. Ma nelle icone, ciò è, se possibile, ancora più profondo, per i simboli talvolta complessi anche solo da identificare non solo legati alle immagini, ma ai significati degli oggetti che in esse vi trovano, dei paesaggi che le strutturano, dei colori stessi che le compongono e colorano, dei personaggi e dei loro gesti.
Vivere questo mistero del silenzio, leggendo quanto un’immagine possa dire e trasmettere, è la rete, il substrato che ci deve tenere legati a questa realtà di fede, e non solo alla devozione. La fede è la ricerca. Lo vedremo in seguito, con S. Michele e la sua più antica rappresentazione; per adesso ripartiamo da questo concetto: la tradizione senza conoscenza diventa sterile consuetudine, che non sopravvive se non di improvvise fiammate, quasi tutte relegabili al “fuori”, all’estetica, agli aspetti formali.
Se si può ripartire dal deserto, ebbene, si può ripartire dal nostro territorio, dalla sua intimità per certi versi violata, ma non irrimediabilmente persa. La Murgia è il luogo da cui ripartire. L’inverno, la quiete silenziosa che sembra assenza, ma è maturazione, diventerà un fiorire ingegnoso; le immagini, a fare da sponda, supporto, aiuto, e rete. Buon Natale, buona Natività del Signore, buona rinascita.
Giuseppe Laquale
Scatto di Carlo Centonze: : Presepe vivente di Algramà, nel Giardino del Santuario della Madonna del Buoncammino di Altamura.