“È scoppiata la pace”: sarebbe bello sentirlo!

La Terrasanta brucia, anzi ribrucia, meglio non ha mai smesso di bruciare. Non mi soffermo sui nuovi rigurgiti armati in Medio Oriente. La storia è complicata per essere spiegata in poche righe. Piuttosto approfitto per parlare di pace, del suo immenso valore.

            L’etimologia della parola “pace” deriva dalla radice sanscrita paç/pak/pag, legare, saldare, unire, che si trova nel sanscrito pâç-a yâmi (lego), paç-as (calappio, corda), pag-ras (sodo, fitto) o anche nel latino pac-iscor (concordo, pattuisco). La stessa etimologia del termine “pace”, quindi, non esprime uno stato che trova giustificazione in se stesso, bensì una condizione esistenziale sopraggiunta, fissata in seguito a un patto. In definitiva, si conviene comunemente che l’idea di pace non costituisce una condizione spontanea dell’esistenza, bensì un presupposto da raggiungere attraverso l’allontanamento degli elementi conflittuali.

            Se da un lato crediamo di assegnare al termine “pace” un significato universale, di fatto, attraverso i secoli questo termine ha assunto, all’interno delle varie culture, significati differenti che hanno portato a concezioni diverse e molto soggettive. Infatti, se della guerra si ha un’idea immediata e concreta, al contrario, volendo cercare e dare un significato univoco al termine pace, ci si trova di fronte all’impossibilità di formulare un concetto immediatamente definibile e, soprattutto, univoco: si ricerca la propria pace anche a danno della pace altrui. È questo il problema della pace! È questo il motivo perché la pace non “scoppia”, deflagrando al contrario la guerra.

            Dobbiamo comprendere che la pace è molto più che il risultato di trattati tra governi. Essa deve essere intesa come valore universalmente riconosciuto e voluto, come accettazione delle differenze, come educazione alla complessità, come ricerca della relazionalità dei rapporti interpersonali e interstatuali. La pace è garantita solo ed esclusivamente dal comportamento e dalle scelte degli individui.

            Abolire la guerra e costruire la pace sono due traguardi vicini, ma non identici, giacché la pace non può essere definita solo come assenza di guerra, ma deve essere considerata come dominio della giustizia in assenza di violenza (violenza, sia quella visibile sia quella subdola e indiretta), ma anche come valore universale di rispetto per la vita e per i diritti umani. Di qui si può anche intendere il senso vero e profondo del famoso e sapiente detto biblico “opus iustitiae pax” (effetto della giustizia sarà la pace): «La pace non è la semplice assenza della guerra, né può ridursi unicamente a rendere stabile l’equilibrio delle forze avverse; essa non è effetto di una dispotica dominazione, ma viene con tutta esattezza definita a opera della giustizia» (Isaia 32,7).

            Un “valore” più importante al termine “pace” è dato proprio dagli idiomi delle due realtà politico-sociali che da sempre sono in contrasto, israeliani e palestinesi. Dunque pace nell’espressione ebraica shalom e in quella araba salām, che significano pienezza di vita, integrità materiale e interiore, completezza, salvezza.

            La Pace è allora un “valore” e non un “obiettivo”. Essa deve essere intesa come virtù universalmente riconosciuta e voluta, come accettazione delle differenze, come educazione alla complessità, come ricerca della relazionalità dei rapporti interpersonali e interstatuali e, soprattutto, come disarmo delle culture e della politica. Come ha sapiente detto Albert Einstein nel 1933, si tratta «dell’importante compito di educare e illuminare le menti».

Renzo Paternoster

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