La grotta, da ambiente chiuso a tappa di un cammino

Lavoro da qualche mese al restauro e alla conservazione delle superfici lapidee delle chiese rupestri del Parco Materano di Murgia Timone, inserite in un percorso tortuoso e affascinante, punteggiato dalla macchia arbustiva delle colline profumate di mentastro, sforacchiato da pietre bianche calcinate dal sole e pulite da venti perenni che soffiano impietosi a consumare le calcareniti friabili. L’uomo qui ha scavato, ha costruito, ha fondato nel passato una vita grama e dura, in una natura tanto aspra quanto unica; qui ha immaginato divinità terrestri e aeree, ha danzato con ninfe e fiammelle ardenti, ha annusato un’aria, un tempo –e non più, purtroppo- salubre e infuocata. Di tutto ciò oggi rimangono frammenti che è necessario proteggere ma anche valorizzare, consolidare ma anche rispettare, rendere leggibili e fruibili ma anche e soprattutto lasciare che si modifichino nel tempo. Ed entrare nella storia.

E così ho ripulito mura e superfici, terreni e frammenti, consolidato soffitti e scialbi, e sempre, a poca distanza, c’era un santo su un pilastro a guardarmi severo, giudice dei miei pensieri, delle mie azioni, ma solo perché ne rispetto “la casa”, questa simbolica abitazione terrena scelta da uomini fedeli, giunti dal mondo ortodosso e bizantino, che qui incontrarono un’influenza longobarda a dettar legge nell’iconografia. Tuttavia il vecchio Simeone, qui campeggia dritto in una lunetta affrescata, accoglie non senza parole dolci e dure il Gesù bambino nel giorno della sua circoncisione, e si fa anticipare dalla profetessa Anna, che in greco avvisa, in una sorta di fumetto qui rappresentato da un cartiglio, che il bambino è per l’appunto il Creatore.  Attenzione: di loro rimangono frammenti che parlano; questo affresco, da intero avrebbe urlato! E così, poco distante, un San Nicola, ieratico e inflessibile vorrebbe osservare il nostro lavoro: non può, il tempo e l’incuria gli hanno cancellato il viso e gli occhi, ma rimane la barba riccioluta, la mano in segno di benedizione a consacrare le ore di lavoro e spingerci a far meglio, a continuare, a non temere polvere e umidità; o almeno, così mi piace credere.

Oggi il vento spettina più del solito i capelli radi e bianchi di G., l’impresario che dalla sua longobarda altezza, gli occhi celesti, la pelle mitteleuropea, il viso segnato dalla fatica e sigillato dal sole, mi guarda stupito: è venuto fuori da uno scialbo un frammento di affresco, niente di più che un lembo di veste tipicamente bizantineggiante, costruita da geometrici rombi e punti di colore bianco vivo. E’ un segno evidente della durata delle cose fatte bene, nonostante ogni angolo qui parli di frammenti, di caducità, di momenti strappati al tempo, di difficili ricostruzioni di vite lontane eppure così incarnate nelle nostre; è un bell’esercizio immaginare uomini vestiti di cenci in cerca di un conforto anche solo religioso, o più probabilmente di un cucchiaio di miele, di un po’ di vino torbido ma genuino, a percorrere a piedi stanchi queste colline: li immagino all’interno delle grotte, a parlare con i monaci per guadagnarsi una minestra; c’era poco per tutti, molto per pochissimi, il sufficiente per quasi nessuno. 

Un tempo aspro, fatto di cammini speranzosi di migrazioni e migranti, di epidemie improvvise, di aneliti a mondi migliori, di pochi appigli sulla fede e sui governi, di relativismo imperante, ammantato a volte di false professioni di fede, tanto somigliante ai nostri giorni, quanto differente nelle mode, nelle frenesie, nelle pigrizie. Un medioevo basso, in cui, a distanza di 7 secoli, mi sembra di esserci ripiombato.

Torno ai miei muri, alle loro polveri; no, oggi no, quel minuscolo pezzetto di calcare lo lascio lì, e spero che possa salvarsi come spero anch’io, di rimanere ancorato alla vita che mi sfugge, come sfugge anche adesso il vento che scappa dagli anfratti delle gravine, e accelera mentre queste si stringono in gole infossate, che torna in un refolo vorticoso ad entrare nella grotta; ecco il vento, lo ha portato via lui, quel granello. Pazienza. Lo raccolgo e lo rimetto al suo posto, poi torno ai miei muri. Li guardo; un monaco mi tocca la spalle e mi saluta in un’immagine già vista nei miei sogni, poi scompare veloce come un gatto; ma ho sognato? San Nicola è ancora lì, speranzoso, mi affido a lui. Almeno lui c’è, non svanisce, e insieme a lui i santi della nostra lunga e fremente tradizione, che grotta per grotta raccontano ad episodi il nostro ”NOI”, la nostra profonda e contraddittoria storia, che dobbiamo ricucire, per ricongiungerci sulla strada che ci resta: attaccarci al passato, affranti ma energici come una ginestra di leopardiana memoria, per imparare ancora a distinguere nel presente ciò che è buono da ciò che non lo è.  E noi siamo figli di questa cultura della vita in grotta, che nelle sue declinazioni è quanto di più comune possa esserci in un territorio definibile “transmurgiano”, che si estende dalle formazioni di calcarenite sedimentario alle porte della città metropolitana barese e lambendo le pendici del Gargano e della terra lucana.

Su questo terreno può rinascere una nuova cultura dell’ordine e della bellezza, si può ricamare una nuova rete di strade dei santi, una via micaelica dedicata all’Arcangelo che più di altri ha segnato e sostenuto la diffusione del cristianesimo, pur essendo una figura dal forte ecumenismo, essendo lodato in molte forme nelle tre religioni del Libro. Ma nulla esclude, come non lo ha escluso in passato, che lo stesso Arcangelo si assuma le responsabilità di portare con sé altre figure che nel nostro contesto culturale e religioso hanno trovato fortuna di immagini e di sentimenti, ricordando che intorno a loro sono nate e cresciute le migliori espressioni del nostro essere italiani, meridionali ed europei ante litteram. 

A proposito, saluto con gioia il mio datore di lavoro Giovanni. 

Giuseppe Laquale

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