103 anni fa scoppiò la pandemia di “spagnola”

L’8 marzo del 1918, a Campo Fuston in Kansas, è registrato il primo caso della terribile influenza chiamata “spagnola”. Quasi sicuramente il letale virus già circolava da fine gennaio di quell’anno.

            La pandemia è chiamata “spagnola” perché i primi a divulgare la notizia sono stati i giornali spagnoli che, liberi dalla censura militare imposta dagli eventi bellici della Prima Guerra Mondiale, amplificarono una notizia diramata dall’Agenzia giornalistica iberica Fabra: nel maggio del 1918, una settimana dopo le celebrazioni di san Isidro a Madrid, centinaia di persone iniziarono a manifestare sintomi di una malattia feroce. La copertura mediatica finì per battezzare l’influenza come “spagnola”.

            Responsabile della “spagnola” è il virus RNA H1N1, un agente patogeno con una incredibile “astuzia biologica”, poiché capace di evitare le risposte del sistema immunitario. L’influenza, infatti, non è stata la diretta responsabile del tasso di mortalità: i decessi erano provocati dalle infezioni batteriche che aggredivano i pazienti influenzati.

            Un aspetto che caratterizzò questa epidemia è stata quella di colpire soprattutto i giovani, maggiormente i soldati al fronte. Per chiarire il perché ci vuole una piccola spiegazione di virologia. In un virus è importante la sua contagiosità, ossia l’abilità di diffondersi, e la sua letalità, ovvero la capacità di provocare la morte. Nel caso della “spagnola”, la contagiosità dipende dalle proteine sulla superficie del virus, perché sono quelle che si attaccano alle vie respiratorie; la letalità è invece in rapporto a quanto il virus è capace di scendere nei polmoni, provocando polmoniti emorragiche, oppure di rendere vulnerabili l’organo essenziale per la respirazione a batteri a loro volta causa di polmonite. Quasi sicuramente, al momento della pandemia da influenza spagnola la popolazione più adulta aveva conosciuto epidemie precedenti da altri virus di tipo H1N1 meno letali, quindi era protetta da anticorpi, mentre i giovani no.

            Nel numero del 15 giugno 1919 il prof. Polettini descrive i reperti di 50 autopsie eseguite all’Università di Pisa tra settembre e ottobre dell’anno prima. Si trattava in 40 casi di individui giovani, in gran parte militari, 5 giovani donne in gravidanza e 5 persone più adulte. Si legge nel referto del prof. Polettini: presenza di petecchie emorragiche (una ridotta macchia cutanea, piatta e rotonda, conseguenza di una piccola emorragia) alla cute del collo e sul torace; iperemia (aumento del flusso sanguigno) dell’encefalo e del midollo spinale; il cuore non mostrava segni particolari, a parte qualche petecchia epicardica; petecchie su tutta la superficie pleurica (la pleura è una membrana che riveste i due polmoni), entrambi i polmoni presentano una diffusa “epatizzazione” (alterazione del parenchima, ossia del tessuto che esplica le funzioni vitali specifiche del polmone) con presenza di aree emorragiche alternate ad aree più grigie ed epatizzate, talvolta purulente. I bronchi si presentavano di aspetto di colorito rosso carico e a tratti purulento. Dunque era il reperto polmonare a essere più significativo.

            I sintomi comuni dell’influenza “spagnola” sono stati tosse, dolori lombari e febbre alta. I primi casi di “spagnola” si registrano negli USA e quasi sicuramente sono stati i soldati statunitensi a “portare” il virus in Europa. Il grosso numero di spagnoli contagiati una settimana dopo la festa di san Isidro aiutò a comprendere che gli assembramenti erano (e sono) causa di forte contagio.

            In Italia, il primo allarme è stato lanciato nel settembre del 1918, a Sossano (Vicenza), quando il capitano medico dirigente del Servizio sanitario del secondo gruppo reparti d’assalto invitò il sindaco a chiudere le scuole per una sospetta epidemia di tifo.

            La “spagnola” non risparmiò nessuno e tra gli illustri furono colpiti il pittore austriaco Gustav Klimt, il poeta francese Guillaume Apollinaire, il pastorello di Fatima Francisco Marto e l’aristocratico Umberto di Savoia-Aosta.

            Sottovalutata agli esordi, perché considerata risolvibile con tre o quattro giorni a letto, la medicina ufficiale si mostrò incapace di contenerla e si registrano almeno 50 milioni di decessi (qualcuno arriva a sostenere sino a 100 milioni).

            Storicamente la prima ondata durò da marzo a luglio 1918, ma in agosto avvenne una seconda ondata, peggiore della prima. In estate sembrò in via di esaurimento, ma da settembre riprese ferocemente. La fine globale della pandemia arrivò nel 1920, quando la società sviluppò un’immunità collettiva, anche se il virus non è mai scomparso del tutto.

Renzo Paternoster

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