G. Marrulli, le bandiere rosse non sventolano più sui muri a Gravina

          Raccontare la storia della città attraverso l’arte della pittura è sempre un impegno vincente: un episodio o un personaggio di rilievo, impressi sulla superficie di qualsiasi materiale si abbia a disposizione (tela, legno, pietra ecc.), sono più eloquenti e fascinosi di altri linguaggi della comunicazione.

          Al pari di quanto altre località e metropoli del mondo hanno da lungo tempo realizzato, anche Gravina ha dato avvio, sul finire di quest’anno di diffuse polemiche intorno alla pandemia, alla narrazione della propria storia per immagini, su impulso del progetto della regione denominato “La città invisibile: un’archeologia delle tracce”.

          Ma possiamo parlare di riqualificazione urbana o di rivitalizzazione delle periferie della città? Facciamolo, a patto però di considerare insufficiente allo scopo l’abbellimento delle facciate degli edifici di edilizia popolare con i murales, sicuramente annoverabili tra le opere artistiche di maggior impatto visivo, ma purtroppo non in grado di ricucire gli strappi e colmare le distanze della periferia dai quartieri centrali e meglio attrezzati della nostra comunità, che sono fatti sempre di più oggetto dell’attenzione degli amministratori pubblici e degli imprenditori privati.

          Quando si sente parlare di declino della città – in senso lato e non specifico di singole realtà – si fa riferimento non tanto al fenomeno del degrado architettonico quanto ai cambiamenti registrati per effetto del mutare della sua composizione sociale: la crescita del ceto medio a discapito di una classe operaia ridotta ai minimi termini nelle città industriali, il trasferimento della condizione del bracciantato agricolo alla sopraggiunta categoria dei diseredati di origine extra-comunitaria negli agglomerati urbani di qualsiasi dimensione.

          Così a Milano e a Torino non ritroviamo più i lavoratori delle fabbriche alle prese con i problemi della catena di montaggio e con la rivendicazione di un tenore di vita più consono. E a Gravina, come ad Altamura e a Matera i tumulti dei cafoni sono un ricordo del passato.

         Era necessario fare questa premessa, proprio per sgombrare il campo da facili fraintendimenti. Ma, ciò detto, dobbiamo passare ad altre riflessioni.

          E’ molto suggestiva l’immagine in bianco e nero di Giuseppe Di Vittorio, che campeggia sulla facciata laterale di una palazzina del C.E.P., ben visibile dalle automobili che percorrono la circonvallazione intitolata ai Giudici Falcone e Borsellino. Nessuna bandiera rossa sventola sullo sfondo.

          E’ un murale evocativo. I nostri politici hanno voluto cominciare dalla questione sociale.

         Adattando un pensiero espresso dall’architetto e urbanista Stefano Boeri (in “Urbania”, Laterza 2021), dietro le facciate, oltre le finestre, negli interni dove si svolgono i riti intimi della quotidianità, le nostre case sono dense, pulsanti di emozioni. E dietro la nostra facciata, che dobbiamo immaginare improvvisamente crollata, scopriamo uno spaccato della società che è profondamente cambiata da quella nella quale era calata l’attivismo del grande sindacalista e che, pure, gode dei frutti di una stagione di lotte e rivendicazioni.

          Il murale è stato dipinto da Marta Lorenzon, artista visiva che si cimenta sia nella classica pittura su tela sia nelle opere urbane. Originaria di Sacile (Pordenone), si è laureata in arti visive presso l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia e si è specializzata in illustrazione editoriale a Milano, dove ha ottenuto il riconoscimento di “operatrice della creatività urbana”.

          Mostra un Di Vittorio giovane e sorridente, che sembra parlare a una folla di braccianti agricoli, accompagnato da due visi in secondo piano che esprimono consenso, anche se sfumati, anzi appena abbozzati nei lineamenti frontali.

          E’ un murale privo di colori vivaci, al contrario della gran parte di quelli che si sono diffusi nelle metropoli urbane, a partire dal Messico per finire ai quartieri periferici di Roma. Né appartiene alla categoria dei murales a sfondo politico-sociale come quelli di Banksy. Non è celebrativo alla maniera dell’arte figurativa del realismo russo o delle rappresentazioni tipiche dei paesi orientali a regime non democratico.

          Eppure trasmette un messaggio inequivocabile e risponde appieno ai canoni dell’intervento di tipo culturale: Giuseppe Di Vittorio sta lì, nel Centro di Edilizia Popolare, a rappresentare il cuore della “questione sociale” di Gravina, la quale è stata il teatro delle lotte sindacali ad opera soprattutto dei braccianti agricoli per la conquista dell’”imponibile di mano d’opera” e di salari dignitosi per i lavoratori e le loro famiglie.

          Il settimanale di cultura contemporanea “Il Politecnico” pubblicò nel 1945 un reportage sulla condizione dei braccianti agricoli in Puglia, nel quale si scriveva: “Nella Capitanata, nell’interno della provincia di Bari e nel Salento vi è in prevalenza grande proprietà a coltura estensiva. Tutti i braccianti agricoli non possiedono nulla e fino a 70 anni fa i contadini pugliesi vendemmiavano per i padroni con al muso una museruola perché non mangiassero l’uva”.

          Il reportage alzava il velo sulla condizione miserevole dei cosiddetti “cozzali”, che affluivano nella piazza del paese sin dalle due o dalle tre di notte d’estate o dalle quattro d’inverno. Arrivavano con la zappa e chiedevano “la giornata”, raccomandandosi persino ai santi del Paradiso, umiliandosi e pentendosi di azioni e pensieri cattivi. Ma, quando il sole sorgeva, se erano rimasti senza lavoro, si arrabbiavano contro il mondo intero.

          La Puglia veniva definita “medievale”. La giornata di un uomo con la zappa consentiva di comprare due chili di pane e un chilo di fave o zucche. Le famiglie con più uomini o ragazzi potevano permettersi olio, sapone o, nei casi più fortunati, una casa. I cozzali senza lavoro erano uomini perduti.

          Nel secondo dopoguerra l’odierna Piazza della Repubblica – dove si concentravano le sezioni dei partiti, la Camera del Lavoro, l’unico albergo della città – chiamava a raccolta moltitudini di gente per lo più priva di copertura sociale, cioè senza un lavoro e senza sicurezza per l’avvenire. Da Porta S. Michele alle scale della Chiesa del Purgatorio, oppure dall’arco di S. Agostino fino alla piazza delle Quattro Fontane era una processione che dalle prime luci dell’alba si accresceva di ora in ora.

          Domanda e offerta di lavoro – quello delle braccia – si incontravano in quelle piazze. Il bracciante arrivava a piedi, mentre il padrone o il massaro arrivavano più tardi, spesso a bordo di un calesse.

          La trattativa era dura.

          I braccianti e i contadini erano considerati “l’ultima ruota del carro sociale”, gridava il compagno Di Vittorio con cognizione di causa, essendo nato in una famiglia di braccianti – la classe sociale più numerosa nella Puglia di fine ‘800 – ed avendo lui stesso da piccolo offerto le braccia per quel lavoro.

          Di Vittorio è stato più volte a Gravina, oltre che negli altri comuni della Puglia. E’ stato segretario della Camera del lavoro di Bari e Minervino. Ha ispirato l’azione locale – che fu diretta da Vito Guida “U’ Palasidd” – volta ad ottenere l’imponibile di mano d’opera e il miglioramento delle condizioni di lavoro.

          In una città orientata ad accogliere le idee socialiste dai primi anni del ‘900, grazie all’opera svolta dall’Apostolo del Socialismo Canio Musacchio e dal fratello minore Giuseppe (due volte sindaco di Gravina, il medico che stilò il referto di morte della vittima dello sciopero generale del 1947), Di Vittorio ha lasciato un’impronta riconoscibile sulla vocazione “progressista” della popolazione.

          In questa città la sensibilità alla causa dei lavoratori è stata sempre elevata.

          Proprio in questi giorni sono in corso le prove della commedia “La città del dopoguerra”, presso la compagnia “Colpi di scena” diretta dal regista Michele Mindicini, nella quale si ridà vita ai fatti risalenti al quinquennio 1943/1947, al clima arroventato di contrapposizione tra le classi sociali e ai primi esiti favorevoli di quelle lotte politiche e sindacali.

         La commedia, tratta dal noto libro di storia di Michele Gismundo, verrà rappresentata per la prima volta nel Teatro Mercadante di Altamura il 5 e il 6 febbraio prossimi.

Giuseppe Marrulli

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