Te piace ‘o presepe?

È la domanda ossessiva di Eduardo nella sua nota commedia. Certo che mi piace e molto più dell’albero inerte che non rappresenta nulla se non il regno vegetale, di sicuro non quello dei cieli. Nei primi capitoli dei loro racconti anche gli evangelisti Matteo e Luca invitano a ricomporre come in un mosaico i tasselli del Prodigio che illuminò il mondo in quella notte santa. E San Francesco non aveva in mente il catechismo per l’infanzia, né la voglia di scrivere un altro vangelo, essendo per sua stessa ammissione “ignorante e illetterato”, allorché intuì l’importanza e la forza d’urto del presepe inventandone uno vivo e brulicante di gente in carne ed ossa, trascinato dal suo entusiasmo a fare di Greccio una nuova Betlemme. A noi, mancando uomini e donne di buona volontà, qualsivoglia materiale è adatto allo scopo, l’importante è che si faccia e non manchi nelle nostre case, piccolo o grande, mobile o fisso, napoletano o leccese, ognuno scelga quello che più gli aggrada. Per gli indolenti, e io un po’ lo sono, la soluzione è un presepe bell’e fatto, con la Sacra Famiglia e poco altro: nessun bisogno di cercare il muschio, di ritagliare e incollare, né di ricomprare ogni anno le pecorelle smarrite. Un presepe monoblocco che non richieda interventi, salvo l’impiccio di estrarlo dal ripostiglio. Ma forse la magia del presepe è fatta anche di allestimento, specie se d’attorno girano bambini incantati. Allora bando alla pigrizia e andiamo a rovistare negli scatoloni del nonno. Accipicchia, ce n’è di roba: per fondale si srotola una gran carta blu notte trapunta di mille stelle, in contemporanea si posiziona un grosso profilo di pareti scoscese, anfratti e grotte, il tutto confezionato con carta da pacchi stropicciata. Nel piano di mezzo si rincorrono verdi vallate con qualche palmeto, un castello e tre o quattro linde casette. Ruscelli d’argento scendono ad abbeverare uno sparuto gregge di pecore in cammino verso la capanna. I pastori vegliano stretti in giacconi di pelle ovina, alcuni sdraiati, altri in piedi, altri ancora accanto al fuoco acceso. Per bianche stradine fatte con la ghiaia vanno uomini e donne carichi di pesi. Lento e silenzioso è il loro passo, non c’è fretta, non è ancora il giorno del Prodigio. La mangiatoia però è già colma di paglia, il bue e l’asinello aspettano pazienti. Giuseppe e Maria sono quasi arrivati, stanchi per il lungo viaggio. È l’ora. Quando suonano le campane di mezzanotte, il bambino più piccolo della famiglia, nel mio caso Francesco, tutto preso dal suo compito, poserà il Bambino Gesù nella fredda stalla. Finalmente la cometa ferma il suo cammino, il cielo canta un’armonia di astri. Tutta la campagna è un chiarore diffuso, un plenilunio mai visto, un roseto fiorito d’incanto. Il Bambinello è la rosa più bella, sorride teneramente, e allarga le piccole braccia come per accogliere e sommergere di amore l’umanità intera. È il momento di cantare “Tu scendi dalle stelle”, i versi delicati con quella nenia da zampognari riaffiorano alla memoria e i cuori si preparano a cantarla, carica di tutta l’anima e di tutta la tenerezza secolare dei fedeli. “Tu scendi dalle stelle”: cantarla, parole e musica è mettersi in cammino verso il più stupendo racconto che abbia meravigliato la nostra infanzia, verso Betlemme, paese di sogno, strada segreta d’innocenza e di fede. E andare, andare sotto lo sfavillio della neve nel vento, l’anima tesa, il fiato sospeso, in punta di piedi. Perché Betlemme è un’atmosfera, una meta di cuori in cerca dell’ultimo desiderio di bontà. E’ una luce che non si può spegnere più. “Tu scendi dalle stelle, o Re del cielo, e vieni in una grotta al freddo e al gelo…” e a questo punto i miei poveri occhi si inumidiscono di lacrime.

Buon Natale!

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