Un convivio con pecora alla r’zzaule

Dondolandosi flemmatica la campana grande suonava l’”Avemmarì”, che invitava a rintanarsi. Un suono spento, non da Resurrezione, ovattato come quell’ottobre in disordine, ora sotto il mugghio del vento, ora fatto di silenzi in agonia. Così presto il giorno scendeva nella sera. L’ultima luce si dileguava, nulla riusciva a lacerare il velo di un nebbione così testardo a dissolversi. E’ l’ora degli amici: bravi ragazzi, schietti, simpatici, nessun debito. Bisogna onorare l’impegno preso qualche settimana prima, si va da Mario, rosso malpelo, ma buono come il pane del quale è maestro eccelso. Persona garbata e di carattere. Il suo forno a legna, in via Sassari, è bello caldo e accogliente. Nell’antro fiammeggiante, impettita ed ampollosa, è già all’opera la r’zzaul, stracolma di ambrosia. Piatti usa e getta, posate raccattate chissà come, posti a sedere rimediati alla meglio sui gradini, e con un paio di sedie spagliate; tutto alla buona, ma c’era la gioia del convivio: a quello con la lettera maiuscola, Dante si annoiò e da quindici trattati lo ridusse a soli tre. Nel nostro Zibaldone, la pecora è tutto, è il perno intorno al quale ruota il sapere; se la pancia è soddisfatta, e la pecora, comunque la si prepari, è la ragione, anche la conoscenza ne trae vantaggio. La sua morte è la nostra vita. Leggere i Vangeli. La faremmo santa per la sua disponibilità a morire per gli altri. Un sacrificio necessario: questa volta in umido, cioè in brodo…Nel brodo c’è tanto del regno animale quanto del vegetale.

Un matrimonio perfetto. Eccola là, l’ammucchiata di verdure pronte all’orgasmo, sol che provocate ad arte dal peperoncino, si affrettino a titillare la carne ardente della pecora. Una violenza, uno stupro indecente? Macché, le due parti si incontrano di un amore a prima vista. Altro che violenza, è passione dei sensi, è un cedimento reciproco, voluto e cercato, siccome intimamente vicine nella r’zzaul. Il fuoco, attizzato dal buon Mario, che le unisce, è lo stesso dei vulcani, l’acqua è l’antica madre scesa da altezze celesti. Orsù, che il rito si compia. Aspettiamo che la patata non si sfarini, che la cipolla ceda il suo ardore, il sedano il suo afrore, il finocchietto selvatico il suo profumo di prato, gli altri ortaggi le loro essenze, che una giumella di pomodorini diano un po’ di colore a quella gustosa acquetta altrimenti anemica. E su tutto un soffio di origano, un sospiro di pepe.

Un mestolo di legno, ricavato da un ceppo di ulivo, versò quella grazia fumante nelle scodelle. “Ognuno venga a prendere la sua”. Sembrava una preghiera l’invito di Stefanino recitata quasi in ginocchio. Era invece una trovata per costringere un povero sventurato, tremolante nelle mani dalla nascita, a versarsi addosso il liquido. Così fu, e per l’aria greve di fumo volarono grevi bestemmie da turco. Per fortuna subito stemperate da una lunga sorsata di vino, un corposo primitivo da quindici gradi: la sua vite sbuca contorta dalle pietraie delle nostre Murge, come se uno la tirasse per forza.

Arde al sole, perciò il suo nettare è tremendo; si porta dietro un braciere di carboni accesi che riscalderebbero un condominio. Fiotta dalle botti come una furia, sbuffa, crepita, frizza. Nel bicchiere, disciolta la schiuma, sembra placarsi, e invece no. Pochi sorsi e se non hai ben costruito, la mentre si ingarbuglia e la lingua farfuglia. La ciurma bevve. E quando si beve si è liberi di vagare tra pensieri e sentimenti: si ricordano cose tristi e cose liete, un amore perduto o una conquista fatta; c’è chi filosofeggia, chi introduce la politica subito zittito, chi si avventura nel campo dell’arte e chi fa scienza. Vedete, disse non ricordo l’amico da improvvisato docente, in questa vivanda tipica delle nostre parti sono andati felicemente a nozze i due regni, vegetale e animale, epperò anche grazie a quello minerale che ha fatto da tramite, la sintesi dei diversi realizzando in tal modo l’unità dei componenti. Vabbè , ma la sintesi? La brace, ecco il minerale giusto per compendiare. Di cosa è fatta la brace? Di carboni. E il carbone non è forse un minerale? Quando crepita la fascina, fra un tripudio di scintille, il ciocco si arroventa, scoppietta, si spacca, manda bagliori invitanti. Allora tutto si esalta, si trasforma: non senti nella carne che gorgoglia il belato della pecora sacrificale, nel grasso che si scioglie l’incenso dell’offerta? Mai la vita pare così bella come in questo momento, stretti nell’intimità del convivio, ognuno destinato a imprese di gloria. Che fu quella di svuotare piatti e r’zzaule. E di scoprirsi beoni…Dove si vede che essere sobrio, talvolta non è facile cosa allorché si mangia non per bisogno ma per gioia. Il contagio c’è e l’astemio cede, un mezzo bicchiere, perdinci, non di più se no che turpitudine di banchetto. “Ma tua moglie…che ti vedrà imbambolato?” Una megera, a sentir lui, incontrata un venerdì di quaresima. Dunque al bando mense sontuose e grasse imbandigioni. Una specie di cuoca di clausura. Certe sbobbe!. Astemio per forza di cose. “Questa volta, no!” e si mise u r’zzul (orciolo, boccale) in verticale sulla bocca, perché non c’era più vino, mancò sul più bello. O umana natura, come inganni! O troppo piccolo u’ r’zzul, o noi troppo incolmabili. Chiusa bottega per esaurimento di liquido. Liquidazione finale. Fu uno di quei pranzi con cui finiscono le favole, perché nulla è vero nell’amicizia quanto la favola. Ilarità e buon vino, caciara a buon mercato, niente discorsi seri e niente galateo.

Quando a notte fonda uscimmo all’aria, per una di quelle stranezze misteriose che neanche il servizio meteo avrebbe potuto spiegare, imperversavano folate di vento, la nebbia era sparita e nel cielo nero come la pece si erano dispiegate mille e mille stelle. Che c’era da dire di fronte a tanto splendore? Nulla. Che c’era da fare se non guardare con occhi stupefatti?

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