C’era una volta la frasca…

Il vino, fino al secolo scorso era considerato un elemento fondamentale anche per i piccoli agricoltori; infatti, insieme agli altri prodotti della terra era un bene che procurava guadagno, quindi contribuiva al sostentamento della famiglia. Per tutta la comunità, in casi estremi poteva compensare la scarsità di cibo, poiché con le sue calorie forniva energia immediatamente assimilabile, sostituiva l’acqua nei casi in cui questa non fosse sicura per la salute o la disinfettava. Si pensava anche che avesse effetti terapeutici. Verso la fine degli anni settanta, come racconta Raffaele Nigro in un interessante libro dedicato alla viticoltura in Puglia e Basilicata, i contadini scapparono dalle campagne, i vigneti e il vino non interessavano più, si andava alla ricerca del posto fisso, non c’era più manodopera, sparirono i braccianti e cominciò un’altra epoca. I consumatori preferirono al vino la birra, per accompagnare pizza e hot-dog. Finalmente, dopo qualche anno, molti proprietari di fondi presero atto delle potenzialità della loro terra e ricominciarono a dedicarsi nuovamente ai vigneti. La vinificazione era frutto di empirismo, si vendemmiava e si pigiava solo con la luna crescente (oggi molti vignaioli hanno ripreso a lavorare in vigna e in cantina seguendo i ritmi della natura…). Dopo la sciagura provocata dalla fillossera, i vigneti furono ricostruiti con la pratica dell’innesto, l’apparato radicale di alcune varietà di viti americane fece da supporto alle viti europee, consentendo loro di eludere il malefico insetto. Il Primitivo e il Negroamaro furono i protagonisti della ripresa. Si puntò verso obiettivi più lungimiranti, con il recupero di antichi vitigni e anche con l’introduzione di nuovi. Ottantamila sono gli ettari di vigneto “a vino”, con varietà comuni a più zone, altre presenti ma meno conosciute; circa cinquanta sono i vitigni coltivati per oltre centocinquanta ettari.  Nei prossimi  appuntamenti cominceremo a conoscere da vicino le uve di Puglia ma nel frattempo vi racconto una curiosità che testimonia quanto popolazioni lontane siano  vicine per usi e costumi più di quanto si pensi.  

C’era una volta la frasca… Nella tradizione contadina era e in alcuni luoghi ancora è, un’istituzione. In Puglia, un ramo di alloro o di una pianta tipica della zona veniva appesa davanti ad un’osteria di campagna, a volte in una gnostra (it. claustro) dove si serviva e si vendeva vino sfuso. Le gnostre, per i non autoctoni pugliesi, sono una sorta di chiostro, spazi delimitati tra un vicolo e l’altro, punto d’incontro tra vicini di casa. Nelle frasche si potevano assaggiare piatti della tradizione, ballare, suonare, cantare e naturalmente bere. Ho ritrovato le “frasche” anche in Friuli Venezia Giulia, in provincia di Gorizia frasca privata secondo i paesi, annunciate da un ramo di albero posto all’inizio della strada o su una siepe vicina. Anche qui, per limitati periodi, si può vendere vino sfuso “a bicchiere” oltre che da asporto. Non si beve a stomaco vuoto quindi alle uova sode che inizialmente erano l’unico alimento d’accompagnamento, si sono aggiunti salumi solitamente prodotti in proprio (sotto il controllo del servizio sanitario). Sul Carso triestino invece troviamo le osmize – in sloveno osmica, con lo stesso concetto della frasca. L’origine storica risale al 1784, all’epoca di Maria Teresa d’Austria, quando i contadini furono autorizzati a vendere vini e alimenti prodotti da loro, solo per otto giorni l’anno (la parola osmiza deriva da osem, che in sloveno vuol dire otto), periodo in cui ancora oggi, le circa cinquanta osmize presenti sul Carso triestino accolgono in ogni momento dell’anno chiunque voglia trascorrere qualche ora chiacchierando, a volte cantando ma sempre brindando in compagnia. 

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