Una via per Luigi Blasucci.

Il 29 ottobre 2021 all’ospedale di Cisanello di Pisa è morto Luigi Blasucci all’età di 97 anni: era nato ad Altamura il 23 maggio 1924 in una umile famiglia. È stato un critico letterario e accademico tra i più importanti, autore di saggi fondamentali su Dante, Ariosto, Montale e autorità riconosciuta nel campo delle ricerche filologiche e critiche su Leopardi. Uomo di invidiata bellezza e impeccabile eleganza, aveva nei modi e nel portamento una sprezzatura aristocratica. L’annuncio della morte è stato dato dalla Scuola Normale Superiore dove aveva vinto un posto di allievo nel 1942, avendo poi come maestri di lettere Russo, Fubini e Contini. Dopo la laurea, ha insegnato Lingua e letteratura italiana nella Facoltà di Lingue e letterature straniere dell’Università di Pisa dal 1966 al 1975 e nella Facoltà di Lettere e Filosofia dal 1968 al 1982. Dal 1983 al 1996 ha insegnato alla Scuola Normale Superiore di cui è diventato professore emerito nel 1999. È stato membro del Comitato scientifico del Centro Nazionale di Studi Leopardiani, fin dalla sua costituzione, aveva diretto presso l’editrice Pacini Fazzi di Lucca la collana di testi e critica letteraria “L’Unicorno” ed era socio dell’Accademia Nazionale dell’Arcadia e consulente della rivista “Stilistica e metrica”. Nel 2014 a Torre del Greco gli fu conferito il leopardiano Premio La Ginestra per i suoi contributi nell’ambito degli studi leopardiani degli ultimi cinquant’anni. Tra il 1969 ed il 2021 ha pubblicato una decina di sue opere e ha curato la pubblicazione di opere di altri scrittori per varie case editrici. A Dante ha dedicato una serie di ricerche linguistico-stilistiche, tematiche e metriche, riassunte nel volume “Letture e saggi danteschi” (2014). Su Ludovico Ariosto sono fondamentali i saggi “Sulla struttura metrica del ‘Furioso’ e altri studi ariosteschi” (2014), punto di riferimento per i successivi studi sull’ottava ariostesca. Nei vari studi su Montale (sia ricerche linguistiche che analisi testuali) riuniti nel volume Gli oggetti di Montale (2002), Blasucci tende a collegare la concretezza e la precisione del linguaggio di Montale alla sue istanze metafisiche.
Ma è a Leopardi che è più legato il suo nome. Pubblicò molte raccolte di saggi divenuti tappa obbligata per tutti gli studiosi: Leopardi e i segnali dell’infinito (1985), “I titoli dei ‘Canti e altri studi leopardiani” (1989), “I tempi dei ‘Canti’. Nuovi studi leopardiani” (1996), “Lo stormire del vento tra le piante. Testi e percorsi leopardiani” (2003), La svolta dell’idillio e altre pagine leopardiane (2017). Nel 2019 era uscito il volume del suo commento ai Canti di Leopardi (ed è imminente il secondo che completa un lavoro atteso da anni, punto d’arrivo fondamentale della sua lunga attività di leopardista) e “Commentare Leopardi, con tre applicazioni” (2018). Completano il volume altri approfondimenti (Leopardi e Petrarca, la posizione dei Canti nello spazio mentale del loro autore) e alcune incursioni nella prosa di Leopardi (Zibaldone ed Epistolario). Di Blasucci non conoscevo niente ed il mio interesse è nato alla notizia della sua morte, nel sentirlo definire come il più grande studioso di Leopardi e per parlarne ho fatto riferimento anche al ricordo che ne ha dato la professoressa Carla Benedetti, ordinario di Letteratura italiana contemporanea. La morte di Luigi Blasucci, Gino per gli amici, per il mondo della cultura, per la Scuola Normale, per molti colleghi (alcuni dei quali suoi ex allievi) e per tutti quelli che hanno avuto la fortuna di frequentarlo, di godere della sua conversazione e della sua amicizia, è un grande lutto.
È stato anche un incomparabile maestro che con la sua originalità ha lasciato un segno profondo in studenti di diverse generazioni, la sua competenza e il suo intuito ci facevano spesso ricorrere a lui per consigli e giudizi sui nostri lavori. Aveva la sensibilità, il fiuto, il rigore filologico, l’acume critico. Le sue lezioni e conferenze affascinavano, riuscivano a dare il piacere della scoperta, lo stesso che doveva aver provato lui stesso nel farla. Ogni sua pagina è sobria, densa, chiara, originale e necessaria. Aveva il dono dell’esploratore che osserva territori che si credono erroneamente già noti e quello della sintesi lapidaria e memorabile. Delle figure centrali dell’Ottocento diceva: “Manzoni, a differenza di Leopardi, se ne infischia degli spazi interstellari. Per i credenti come lui la realtà si riduce al rapporto dell’anima con Dio. Le cascate del Niagara per lui non avrebbero senso mentre Leopardi rimaneva affascinato da cose del genere. In un’intervista, esordì dicendo: “Parlo volentieri di argomenti su cui posso dire qualcosa, ma non ritengo di essere così interessante che chi legge debba preoccuparsi di me, della mia formazione etc.
Dalla Puglia arrivò appena finito il liceo. Prima di arrivare all’insegnamento universitario ha insegnato nei Licei di Volterra, San Miniato e Pisa e ricordava quell’esperienza come un momento felice ed esaltante. I suoi studenti, ormai anziani, lo ricordano e lo hanno festeggiato in diverse occasioni. Era l’ultimo grande e raffinato della critica letteraria italiana del Novecento. Non leggeva per dovere, approfondiva gli autori che più amava e di cui conosceva a memoria migliaia di versi. Se n’è andato poche settimane dopo aver concluso il secondo volume del suo splendido Commento ai Canti. È stato il lavoro di una vita: avviato negli anni Ottanta su sollecitazione di Contini, a buon punto alla metà del decennio successivo, poi lo ha integrato, limato quasi quotidianamente per tre decenni, con instancabile dedizione: per scrupolo di rigore filologico e aggiornamento bibliografico, ma soprattutto per geloso attaccamento ad uno scartafaccio che era ragione di esistenza. Schivo e per disdegno delle mode, non ha avuto né il potere accademico, né l’effimera presenza mediatica che alcuni colleghi hanno spasmodicamente cercato. Ogni volta che ha preso posizione, anche marcando garbatamente con fermezza, una distanza dalle tesi di studiosi che pure ammirava, ha avuto ragione.
Non era solo un tecnico delle forme e dello stile: l’ironia sorniona del suo sguardo disarmava chi lo spingeva sui terreni poco amati della teoria e delle scienze umane e alla fine l’interlocutore era costretto a riconoscere che il giudizio più esatto, più complesso ed esaustivo era sempre il suo. Nel
video che segue aveva già 95 anni.

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