Per i cento anni di Rocco Scotellaro

di Giuseppe Bolognese

Gli avvenimenti ricordati in questo memoriale sono autentici nella sostanza, solo che la memoria, in qualche momento di compiacimento, si è compiaciuta di subire l’incantevole libertinaggio della fantasia.

Autunno: stagione beneaugurante anche quando si celebra il funerale di una persona cara, perché si compie un ciclo e se ne inaugura uno che si spera sia molto migliore; muore Adamo e Lazzaro risuscita per il credente, si semina e nove mesi dopo si raccoglie il grano, si vendemmia l’uva impregnata di sole e, spuntata a primavera, l’uva diventa vino nove mesi dopo; la giovane sposa si scopre incinta e sa che nove mesi dopo sarà madre. Settembre, il mese che inaugura la stagione, si chiama Kabudannu ancora oggi nei dialetti della Sardegna nordoccidentale: retaggio linguistico degli insediamenti bizantini, popoli di agricoltori il cui calendario era legato strettamente ai cicli stagionali delle attività agricole, per cui l’inizio dell’anno, il kabu (capo) d’anno per l’appunto, coincideva con il settimo mese dell’anno prima del calendario giuliano: settembre.

Del folclore sardo, della condizione dei contadini sardi e dei loro omologhi lucani ha lasciato testimonianze seminali Carlo Levi, sia con gli scritti che con i quadri. Tutto il miele è finito (1964) è sequela tematica di Cristo si è fermato ad Eboli (1945), sentimenti epici intelaiati nel gigantesco telero 61 esposto nel Museo di Palazzo Lanfranchi a Matera. Il telero è adattamento del telèr veneziano e vale “telaio”: tessuto paradigmatico del dramma dei vinti proiettati tuttavia alla riscossa, alimentati dalla speranza corale di un futuro migliore. Levi  vi ritrae sì il dolore di una madre che piange il figlio stroncato dal male a soli trent’anni, ma anche il figlio dalla chioma rossa che incita alla redenzione dei negletti sia i  contadini che gli intellettuali, convinto che il cambiamento sarebbe stato possibile solo con l’intesa virtuosa tra le classi sociali di tutto il Paese. Il figlio attivista, già sindaco di Tricarico, è Rocco Scotellaro, il poeta morto nel tardo autunno del 1953: il ”volto luminoso” del telero, dirà poi Italo Calvino in visita a Palazzo Lanfranchi. Basta allontanarsi appena dai quadri del telero  per leggervi la rappresentazione figurale dell’uva puttanella di Scotellaro. È il grappolo ribelle che non si lascia cogliere, che sfugge ai parametri delle uve dolci e docili, ma che finisce nella tina insieme con gli altri grappoli, piacere proibito che alla fine è passione corale. Nell’ uva puttanella si riconosce lo stesso Scotellaro: «Io e il mio paese meridionale siamo l’uva puttanella, piccola e matura nel grappolo per dare il poco succo che abbiamo». E nella raccolta È fatto giorno invitava i compagni ad unirsi in convivio fraterno e festeggiare con il frutto autunnale: “le cotogne ammolliamo nella brace/ siamo tutti fratelli e stiamo in pace” (La tarantella).

Nella prefazione accorata – e memorabile —  al laterziano volume di raccolta L’uva puttanella – Contadini del Sud (1964) Carlo Levi ravvisava convinto ne L’uva puttanella “il racconto della vita” di Rocco Scotellaro, romanzo sì ma anche memoriale, “come egli amava definire il mio Cristo si è fermato a Eboli”. E L’uva puttanella, memoriale incompiuto, troncato dalla morte di Scotellaro dieci anni prima, a meno di trent’anni, “voleva essere di più: una storia generale poetica  del Mezzogiorno”. Oggi siamo in grado di constatare, con l’ampio vantaggio del senno di poi, che la componente poetica di quel memoriale pone le fondamenta di una scuola di libertà insieme con le proposte di Piero Gobetti, don Luigi Sturzo, il nostro Tommaso Fiore altamurano e Gaetano Salvemini caposcuola della storiografia moderna. Ciascuno di questi, pur con metodi e caratteri diversi, dimostra —  per dirla con Carlo Levi che affianca Scotellaro a Gobetti —  come “ci si possa formare formando, come si conquista la propria libertà e autonomia riconoscendo e conquistando la libertà e l’autonomia fuori di sé, negli altri, nel popolo; e come soltanto in questa rivoluzione formativa si salvino i valori della storia”. Attenti al monito di Salvemini, poi, sarà bene ricordare che la rivoluzione formativa non può esimersi dalla chiarezza, che è “l’integrità morale della mente“.

Carlo Levi, Lucania ’61 (part.): in primo piano Rocco Scotellaro.
Matera, Palazzo Lanfranchi

Il torinese Carlo Levi moriva a Roma a gennaio del 1975, ventidue anni dopo la morte a Portici di Rocco Scotellaro: entrambi fuorusciti e accolti nell’amata Lucania dalla dea silenziosa.

Nel tardo autunno dello stesso 1975 moriva a Roma, come Levi, un fuoruscito pugliese. Ufficiale dei bersaglieri nelle due guerre mondiali, si era laureato in Giurisprudenza alla Sapienza; aveva avuto grandi maestri ed era fiero del suo diploma di laurea firmato da Francesco Severi, matematico di fama mondiale e rettore. Ai meriti di guerra (“ho guadato il Piave tinto di sangue”, mi raccontava) si aggiunse la carriera brillante al ministero dei LL PP, e ai primi degli anni Cinquanta era già «il Commendatore» per tutti quelli che lo conoscevano; per me è stato sempre «zio Peppino», da parte di madre.

«Il Commendatore» era nato ad Altamura alle soglie del Novecento. A trentaquattro anni, dirigente affermato, decise di prendere moglie e gli capitò in buona sorte ‘na bella figghia arrezzende nata a Tricarico  e residente a Gravina in Puglia. Don Giovanni Colangelo li unì in matrimonio nel 1933 nella Parrocchia di San Nicola e Santa Cecilia e sùbito dopo si allogarono nella comoda residenza romana, dieci minuti a piedi dalla Stazione Termini.

Il 17 dicembre 1953 si svolse il funerale di Rocco Scotellaro nella sua Tricarico: assemblea popolare dei tricaricesi; tutti gli abitanti, inclusi i quadrupedi e i bipedi di variegata condizione sociale intervennero compatti alle esequie. C’erano gli amici fraterni Carlo Levi e con lui Linuccia Saba (a lui la prima cittadinanza onoraria di Tricarico, conferita dal sindaco Scotellaro), Manlio Rossi-Doria dell’ateneo di agraria di Portici (presso il quale si era trasferito Scotellaro per curarsi), la prima e l’ultima fidanzata del “secondo poeta d’Italia” Rosso Malpelo – appellativi affettuosi e di ampio corso tra i tricaricesi, c’era la ventitreenne Amelia Rosselli, schiva fino all’inverosimile, legata al poeta da intima, fervente amicizia. Non mancarono però si attittus della sensibilissima poetessa che musica e poesia riteneva dita della stessa mano: Mi sforzo sull’orlo della strada / a pensarti senza vita / Non è possibile, chi l’ha inventata  questa bugia. È la Cantilena (Poesie per Rocco Scotellaro, 1953), piccole strofe autonome (Un Cristo piccolino/ a cui m’inchino /non crocifisso, ma dolcemente abbandonato / disincantato) con l’arpeggio di arpa e tamburelli, quasi un’elegia di Tibullo portata dal vento sul cielo tricaricese:

Come un lago nella memoria
i nostri incontri
come un’ombra appena
il tuo volto affilato
un’arpa la tua voce
e le mani suonano
tamburelli

Francesca Armento, madre di Rocco Scotellaro. Foto di Mario Carbone (1960)
Matera, Palazzo Lanfranchi

E c’erano le lagrime eroiche di Francesca Armento, madre di Rocco Scotellaro. Il coraggio e il pianto di lei animano i suoi brevi racconti-memorie, di un realismo dirompente, come aveva già notato il figlio: “Raccontare, per lei, è mettere in testa a un altro ciò che si tiene in testa propria”. C’è anche Francesca Armento nel telero di Palazzo Lanfranchi a Matera: è lei la madre-simbolo di tutti i vinti votati alla riscossa; è la riscossa di un popolo che si riconosce nell’uva puttanella di Scotellaro, metafora cui fa eco il popolo di formiche di Tommaso Fiore. L’accostamento è utile e opportuno in questo anniversario del 2023: cent’anni dalla nascita di Scotellaro, cinquanta dalla morte di Fiore, entrambi vivi nella memoria di chi ne sa apprezzare i meriti.

Tra la folla assiepata per il funerale di Tricarico c’era anche la bella Consiglia con la sua asina, ben conscia e fiera delle lusinghe disarmanti di Rosso Malpelo, ma che – forse unica – non aveva ceduto alle profferte melliflue di lui. A  ventisei anni Consiglia era nel pieno splendore. Proprio quell’anno Comencini aveva girato Pane, amore e fantasia con Vittorio De Sica e Gina Lollobrigida: i tricaricesi erano tutti convinti che “Pizzicarella la bersagliera” sul somaro all’inizio della pellicola  non poteva essere che Consiglia, sosia perfetta (e perfetta coetanea) della Lollo. Questa impersonava egregiamente il ruolo di “Lucietta bella”, bellezza esuberante che lo sceneggiatore aveva individuato nel proprio paesino di Palena, in provincia di Chieti, mentre “Consiglia la bona” era già cavallerizza di lungo corso in monta amazzone  su somaro, tant’è che i basilischi di Pisticci arrivavano in pellegrinaggio settimanale a Tricarico nella speranza di “rimorchiare Consiglia la bona”: niente da fare.

Qui bisogna e giova fare due digressioni: la prima dettata dai fermenti legislativi sulle pari opportunità; la seconda dettata da una felice e divertente coincidenza nata dalle mie ricerche su Pirandello.

Prima digressione: la Lollo-bersagliera monta all’amazzone un asino o un’asina? La questione non è affatto bizzarra o peregrina o di lana caprina e vanta un precedente letterario di tutto rispetto. Ne L’avventura di un povero cristiano con cui Silone stravinse il Premio Campiello 1968 c’è il risvolto comico dell’avventura di Pier Celestino. Il goffo Cerbicca, poveraccio senz’arte né parte disposto a tutto – incluso rubare –  per sbarcare il lunario, rimbrotta stizzito il fraticello suo interlocutore per non aver capito che la sua bestia da soma è un’asina, non un somaro. Ricordo con piacere la reazione divertita dei miei allievi ogni volta che parlavo di questo contraltare farsesco in un testo che mette in scena il  dramma etico ma anche esistenziale del papa-eremita morronese, che non va identificato con colui “che fece per viltade il gran rifiuto”, con buona pace di tanti studiosi di Dante e di Dante stesso, se davvero intendeva condannare tra gli ignavi Pietro Angelerio. Anche a me è capitato un episodio consimile sui tornanti che portano ad Alessandria della Rocca, nell’entroterra di Agrigento. Viaggiavo nella mia auto in coda ad un contadino che tornava in paese dal suo campo con un somaro e una capra legata alla coda dello scekku. Non potendo sorpassare, stante il senso alternato su corsia unica (l’altra chiusa per dissesto), chiesi molto delicatamente al contadino se l’asino avrebbe potuto alzare il passo.  Mi rispose secco:

– Il passo suo è, sempre lo stesso. E non è un asino!

Mi balenò sùbito alla mente la battuta di Cerbicca e rincalzai:

-Allora è un’asina!

– Bravo. Vossia ha occhio fino. Femmina è. Eufemia conosce questa strada come il prete conosce la Messa.

Seconda digressione, quasi da rotocalco: nell’autunno del 1996 mi recai a Cinisello Balsamo, sede delle Edizioni San Paolo, per stipulare il contratto per l’edizione critica delle pirandelliane Chiose al Paradiso di Dante che avevo ritrovato alla Biblioteca Apostolica Vaticana. Venni accolto molto amabilmente dal direttore che, dopo i convenevoli, mi annunciò che avrei riposato bene nell’albergo vicino che mi avevano prenotato, e avrei dormito nel letto di Gina Lollobrigida. Lieto di stare allo scherzo, risposi che bisognava parlarne con mia moglie… La Lollo aveva preso molto sul serio la sua passione per la fotografia, quindi era stata loro ospite fino alla sera precedente per firmare il contratto di edizione del suo volume fotografico e aveva dormito nella stessa camera riservata agli autori. Quando si parla di occasioni mancate…

Alla fine di novembre del 1975 si svolse a Tricarico il funerale del “Commendatore”; lo aveva preceduto due anni prima nel mondo della maggioranza silenziosa la bella figghia arrezzende nata a Tricarico, sorella maggiore della bella Consiglia vagheggiata dal sindaco poeta. Rito del rientro che si compie nella grande dimora di Venere libitina, ancora in autunno per ripartire verso mete ignote, esperienze impensate per conoscere, conoscere se stessi: chi viaggia molto, ha molto da raccontare.

Le esequie del “Commendatore” furono seguite, nel pomeriggio, da u’ cúnzεlε degno del grande affetto che i tricaricesi avevano tributato negli anni al buon gusto del “pezzo grosso” che aveva conquistato una bella tricaricese. Zio Peppino era un buongustaio anche nel senso gastronomico, palato in perfetta sintonia con le pietanze caserecce e il vino schietto e robusto, il vinum merum degli altamurani. Erano arrivati a Tricarico i vecchi amici di Altamura, due prelati memori e grati degli interventi del Ministero a favore delle chiese bombardate durante la guerra (anche in località mai colpite), insomma una grande famiglia allargata. C’era anche la cognata Consiglia, ormai quarantacinquenne e madre, venusto ornamento consolatorio sui lunghi tavoli frateschi che erano stati allestiti.

Il parroco, don Venceslao Tritapepe, assunse ex officio il ruolo di simposiarca. Alla funzione ecclesiastica abbinava quella di docente di Latino e Greco, ma riuscì a non essere prolisso nel commemorare “il nostro fratello don Peppino”:

-Ricordiamolo come sarebbe piaciuto a lui, con queste orecchiette ai funghi cardoncelli con la ricotta marzotica e il ragù di salsicce, complice l’Aglianico delle nostre vigne baciate dal sole e benedette da Nostro Signore. I Romani si prodigavano per ammannire un silicernio memorabile, i Greci ci tenevano ad onorare i propri morti con il perideipnon degno dell’Olimpo; noi facciamo tesoro del loro insegnamento e li superiamo abbondantemente: a don Peppino!

E così concludendo la breve prolusione che il vocione stentoreo portò ben oltre la periferia di Tricarico, alzò la brocca di terracotta da litri 1,5 e ne bevve un apricore che alleggerì u’ rεzzúlε  di circa un terzo del contenuto di Aglianico.

È utile considerare che don Venceslao sfiorava i due metri di altezza e gli studenti universitari suoi fedeli amici scommettevano sul peso complessivo del parroco: sotto o oltre i due quintali? Scherzavano spesso sul casato di lui: Tritapepe diventava Tritaprete, con la doppia valenza di mangiapreti e macinapietre (prêtε in tricaricese vale sia prete che pietre) omaggio semiserio al suo portentoso apparato gastrointestinale.

Dopo il secondo bis di orecchiette e funghi al ragù sapientemente insaporiti di ricotta marzotica e peperoncino diavolo rosso, avvistato il fondo della brocca di Aglianico, don Venceslao si munì di boccaletto da mezzo litro e pregò la locandiera improvvisata di versargli un sorso abbondante  del rubizzo per sciacquarsi la bocca prima del caffè. Arrivarono anche le melecotogne alla brace, immancabili alla mensa autunnale dei contadini. Il parroco ne staccò un quarto e declamò due versi di Scotellaro, memore del banchetto consolatorio di ventidue autunni prima e del pianto di Rossi-Doria che era stato l’elogio funebre in quella occasione:

le cotogne ammolliamo nella brace

siamo tutti fratelli e stiamo in pace

La prima versione di questo memoriale risale al mese di gennaio del 2022 ed è apparsa nel n.19 della rivista MATHERA (marzo-giugno 2022) con il titolo  “Tricarico: Amarcord d’autunno”.

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