Gianni Moramarco, Gli altarini di San Giuseppe

            Le ricorrenze del 19 e 25 marzo, rispettivamente di San Giuseppe e della Vergine Annunziata, componenti emblematici della Sacra Famiglia, costituiscono – sia sul piano astronomico che meteorologico –   la fine dell’inverno e il sopraggiungere della stagione primaverile.  

            Con le festività celebrate a metà marzo, a cavallo del passaggio tra invero e primavera, si archivia il rigore del freddo   per dar vita ad un nuovo ciclo produttivo.  Il fuoco dei falò, con copioni ereditati dalla storia e   consolidati nel tempo, con radici precristiane, è il simbolo della purificazione e dell’intiepidirsi dell’aria, oltre che della volontà di bruciare il seccume e le sterpaglie dell’inverno.

            La Chiesa e i cittadini dell’entroterra barese, a confine con la Basilicata, tramandano e osservano le consuetudini religiose e popolari in onore di San Giuseppe –   protettore dei bisognosi e patrono di Altamura –  e di Maria Vergine Annunziata, sua sposa e genitrice di Gesù per opera dello Spirito Santo.  In particolare, i fuochi e le fanove sono preceduti dall’allestimento, soprattutto da parte dei gruppi familiari agropastorali, nelle abitazioni dei devoti (aperte a chiunque voglia entrare e pregare), o lungo le piazzette, o i vicoli dei centri antichi, di altarini devozionali con le immagini o icone dei santi, fiori, ceri e con le panette benedette.

            Si alternano i riti religiosi con le novene, una Messa solenne nella Cattedrale dedicata all’Assunta e la processione con la statua lignea per le vie del centro storico di Altamura.  

            Il rito si completa, ad Altamura con la preparazione, benedizione e distribuzione del pane di San Giuseppe, di farina di grano tenero, dal peso di circa gr. 200, dalla forma a treccia, forse a richiamare una croce.

                                                                                                                                                                                               L’importanza del pane di San Giuseppe – protagonista indiscusso della festa insieme al fuoco –  è da ricercare nelle antiche comunità medievali, quale simbolo dell’abbondanza, o di ringraziamento.

            A Gravina, invece, si prepara il ruccolo (ù rucchèl’), ossia la focaccia di San Giuseppe dalla forma che ricorda una ciambella e che è parte della cultura popolare. Nel giorno che precede la festa si prepara l’impasto (semola di grano duro rimacinata; olio d’oliva, sale, zucchero, lievito di birra) della focaccia rustica che sarà poi fatta lievitare.

         Attenzione all’impasto della trazione che, nella ricetta originaria, non prevede olive, tonno, baccalà e/o addirittura pezzettini di salami, oppure frolla dolce.  Mentre, per il ripieno, sono utilizzati cipolle sponsali o porri, sgombro/alici sotto sale, uva passa, pepe, zucchero, olio d’oliva. Ricette analoghe, con le opportune varianti, si rinvengono in Lucania. (Tricarico, Avigliano etc.)

            Le consuetudini popolari legate alle festività di San Giuseppe e l’Annunziata, che abbiamo ereditate, sono divenute patrimonio culturale della intera comunità, e non solo di quella cristiana.

Purtroppo, si è spenta la consuetudine di allestire un grande falò a Porta Matera ad Altamura, in occasione della Festa dell’Annunziata ed in prossimità della Chiesa. Per questo, insieme alle Confraternite, abbiamo il compito e la responsabilità di recuperare tradizioni di valenza religiosa, sociale e culturale, conservarle e tramandarle. Abbiamo il dovere di restituire alle future generazioni quello che si è disperso per incuria e sonnolenza, per disamore della storia. O per approcci minimalisti, che spesso finiscono per svuotare dell’anima anche l’essenziale.

Gianni Moramarco

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