Una riflessione nel mese della “Giornata internazionale dei diritti della donna”

Ricorre a marzo, dal 1977, la celebrazione della “Giornata internazionale dei diritti della donna”. Per questo dedico questo spazio, messomi a disposizione dal direttore Mininni e dagli amici di AlGraMà, alle violenze perpetuate sulle donne, una delle violazioni dei diritti umani più invasiva e più nascosta, perché gli omicidi sono solo la punta di un iceberg fatto da lividi, spesso celati dietro frasi come “sono scivolata sul tappeto”, bugie dette per paura o vergogna.

Innanzitutto l’8 marzo non è la “Festa della donna”, ma la “Giornata internazionale dei diritti della donna”, dunque una celebrazione per riflettere su un argomento che è divenuto urgenza, perché si è fatto cronaca quotidiana.

Se la diversità biologica è data dalla natura (maschio e femmina), la diversità di genere è un prodotto della cultura (uomo e donna). Così, se la diversità è un principio di natura, le disparità tra uomo e donna sono concetti costruiti. Queste disparità affondano le loro radici nel lento passaggio dalla preistoria alla storia, che determinò la fine delle società gilaniche e l’inizio di quelle patriarcali (“gilania” indica la fase preistorica plurimillenaria di parità tra i sessi). Il sistema patriarcale, che è un arbitrio culturale, ha di fatto legittimato il dominio di un sesso, quello maschile, su un altro, quello femminile.

Una relazione fondata sull’asimmetria di potere non può che produrre violenza. Così, per tanti secoli, per troppi secoli, la donna, ritenuta incapace di determinare finanche sè stessa, è sottomessa alla tutela normativa dell’uomo di casa, senza avere storia, perché questa appartiene solo al maschio, custode sia dell’ordine domestico sia di quello sociale. La perpetua violenza esercitata sulle donne è la conseguenza di questo retaggio culturale: «se da un lato c’è una incapacità di chi attua la violenza di gestire sentimenti, emozioni e impulsi, dall’altro c’è un perverso senso di possesso e di dominio. Da parte dell’aguzzino la vittima diventa un dispositivo per attraversare un orizzonte simbolico e raggiungere un determinato scopo: un piacere (sadico), un (perverso) senso di dominazione, una potenza simbolica (scellerata), una superiorità maschile (illusoria)» [dal mio La politica del male, Tralerighe, Lucca 2019, p. 148].

Paradossalmente ci sono volute delle leggi per riportare il discorso pian piano alla giusta e naturale equazione donna=uomo. Nel frattempo il simbolico continua a permettere il reale.

Vi racconto un aneddoto. Nei primi anni dello Stato d’Israele, si registrò un’ondata di violenze contro le donne. In un Consiglio dei ministri si discussero i rimedi e alcuni proposero di mettere il coprifuoco per le donne, obbligandole a stare a casa dopo le otto di sera. Quando parve ormai l’unica soluzione, la premier Golda Meir intervenne è disse: “Se volete il coprifuoco, imponetelo agli uomini. Bisogna punire i colpevoli, non le vittime”. Ecco, secondo me bisogna rovesciare il problema: la violenza sessista non è un problema di donne, ma di maschi! Per questo, ancor prima di difendere le vittime, occorre lavorare sui carnefici. Non serve inasprire solo le pene a “danno compiuto”, ma credo sia utile un’opera di educazione rivolta a tutti: alle donne per far comprendere loro che è un atto d’amore verso se stesse reagire e non tollerare con il silenzio la violenza dei “propri maschi”; all’uomo per far capire che non è il sesso in dotazione a “fare la differenza” e che un rapporto basato sulla stima e sul rispetto reciproco è armonia in una relazione. Educare, dunque, iniziando già a sospendere l’implicito culturale universale che porta a considerare le violenze sulle donne un frutto del “troppo amore”. No, non è così… è egoismo, è possesso, è fallocrazia… l’amore è un’altra cosa!

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