Storia di grandi migrazioni a piccola distanza

Il casato Bolognese da Gravina ad Altamura

C’era una ben nutrita rappresentanza del Clan Bolognese giovedì sera, ultimo giovedì di ottobre. Bene ha fatto, il comitato ristretto di organizzatori, a scegliere un ristorante-pizzeria di Trentacapilli: i Bolognese sono notoriamente loquaci – tale si considera la media, beninteso – e sono pochi quelli che si limitano a sussurrare, specie quando si tratta di fare sfoggio delle proprie doti canore: canta che ti passa!

Eravamo una cinquantina: il personale, gentilissimo e speciale in ogni accezione, si avvicinava trepidante e premuroso, mentre Tonia – madre e collaboratrice dei titolari del locale lungo, luminoso e lusinghiero con l’arredo sobrio – approfittava sapientemente di una seggiola momentaneamente vuota per sedersi accanto ai commensali dell’allegra brigata e familiarizzare. Già: è una di noi.

Mi occupo da una ventina d’anni, nei ritagli di tempo, delle vicende migratorie dei Bolognese sia in Italia che oltreoceano, e ad Altamura se ne occupano anche cugini e procugini che non hanno vissuto l’altrove come me, ma come me nutrono il salutare interesse di conoscere le proprie radici per meglio conoscere se stessi. Non farò nomi per evitare le giuste rampogne di quelli che non citerei, ma dirò che i cognomi dei congiunti per matrimonio sono tanti, ed eccone alcuni: Caon, Chierico, Colonna, Fiore, Forte, Garziano, Ghionna, Giorgio, Gramegna, Mirenghi, Moramarco, Nasca, Nuzzolese, Pappalardo, Popolizio, Saulle, Scisci, Tirelli, Tubito.

Ho sorpreso tutti i commensali, tranne i pochi che frequento da anni, annunciando che tutti, assolutamente tutti i Bolognese di Altamura, sono oriundi della vicinissima Gravina: tutti trasferitisi all’inizio dell’Ottocento, attratti dalle ottime prospettive di lavoro edilizio e non solo. Dopo gli sconvolgimenti e la profonda crisi istituzionale seguita al 1799, Altamura si stava lanciando in una febbrile campagna di ricostruzione, sia nell’edilizia padronale che nella iniziativa pubblica, donde il bisogno di manodopera qualificata. Arrivarono così da Gravina i costruttori più affermati, spesso insieme con i propri dipendenti di lungo corso: furono i mastri muratori – più tardi i loro discendenti – che costruirono gli edifici residenziali, le chiese e le case religiose degli Orsini, dei Calderoni, dei Pomarici Santomasi, dei Sottile Meninni e dei gagliardi palazzi padronali che si affacciano sulla storica Via San Sebastiano.

Valga una testimonianza su tutti i documenti d’archivio che comprovano il fenomeno: nel Registro dei Morti della Parrocchia di San Giovanni Battista e Santa Lucia di Gravina in Puglia (all’epoca Gravina di Puglia) c’è una vistosa annotazione in data 7 settembre 1762. È vistosa per la M molto evidenziata davanti al nominativo del defunto: Mastro Domenicoe Bolognese, figlio di Giovanni Paolo e Giovanna Calamita. Domenico era nato nel 1696 e sposò la gravinese Giovanna Tavella. Mastro Domenico, Priore della Congregazione del SS. Sacramento, fu sepolto accanto all’omonimo altare della Cattedrale gravinese. È ragionevole supporre che abbia continuato la professione di suo padre Giovanni Paolo, e che pertanto il nonno da cui derivava il nome sia nato nel Cinquecento. Mancano i riscontri documentali, almeno fino ad oggi, quindi invito i nostri eredi a perseverare nella ricerca.

Il matrimonio Bolognese-Tavella ci porta a due rilievi onomastici: Giovanna Tavella reca lo stesso nome di sua suocera Giovanna Calamita, e il nome si ripeterà nei ceppi Bolognese per tutto l’Ottocento. Durante la mia infanzia sentivo parlare dei Tavəlónə di Gravina, ossia dei Bolognese, proprio  dai cugini di mio padre, e precisamente da Nicola Bruno (1884-1970) i cui avi erano venuti da Gravina, eroi del 1799 i Fratelli Bruno, loro parenti. Per giunta, Nicola aveva lavorato nella fabbrica di calzature di Domenico Bolognese (1837-1907), mio bisnonno, che prese in affitto le sale del cortile del Palazzo Vescovile per allogarvi la lavorazione sequenziale delle calzature (tomaia-suola-tacchi-verniciatura e lucidatura). L’interno del cortile era adibito all’abitazione di Mastro Domenico e Maria Nasca sua moglie.

Alcuni dei loro otto  figli nacquero proprio in quelle stanze, incluso il Canonico dott. Felice Bolognese, primicerio della Cattedrale, fondatore del Terz’Ordine del Carmelo ad Altamura e compagno di studi di Eugenio Pacelli all’Almo Collegio Capranica di Roma. Ebbene, a Gravina i Bolognese maschi, alti ben più della media, avevano il soprannome Tavəlónə, vuoi per la statura, vuoi per il mestiere di muratori che li distingueva. Il mio tirocinio di linguista mi induce a supporre che il casato di Giovanna Tavella abbia quanto meno sostenuto il nomignolo. Mio nipote Piero Dipalma, gravinese doc sposato con una Bolognese arricchita di retaggio gravinese, mi riferisce che di Tavəlónə si parlava ancora a Gravina qualche decennio fa, ma solo con riferimento generico ai muratori ed ai loro  strumenti di lavoro. Evidentemente il nomignolo è stanziale, come del resto ogni elemento prettamente dialettale della tradizione linguistica.

Ho steso questi paragrafi per offrire un esempio vivente e ben documentato degli scambi sociali che hanno contribuito ad arricchire il nostro territorio. Si tratta di rapporti di fecondazione reciproca tutt’altro che inediti. Basta un piccolo riferimento alla macro-storia delle nostre comunità per rendersi conto che un fenomeno consimile fu alla base della rifondazione di Altamura, voluta da Federico II, Vento di Soave, nel Duecento. Con incentivi, donativi, lusinghe e gestione lungimirante invitò Gravinesi, Bitettesi, Barlettani ed altri a collaborare alla crescita urbana sul colle ameno. E allo stesso tempo incaricò Gravinesi e Altamurani di curare amorevolmente, in stretta collaborazione, il giardino e la domus di delizie che volle a Gravina, ossia il castello: luogo di sollazzo, nella caccia, nella pesca, nelle letture amene di poesia e nelle rappresentazioni teatrali: ma anche luogo di incontri curiali, e dibattiti con i saggi che lo circondavano, volens veritatem cognoscere, commenterà Fra’ Salimbene de Adam nella Cronica.

In questa ottica, la cosiddetta rivalità tra le nostre città si riduce a vaniloquio, a ciarla sterile. Mons. Saverio Paternoster, decano della Curia gravinese, mi ha riferito recentemente che nell’azienda agricola di suo padre, circa settant’anni fa,  lavoravano due fratelli altamurani molto apprezzati, tanto che il padre volle premiarli regalando loro un pezzo della propria terra perché potessero coltivare il necessario per la loro famiglia. I bravi giovani si presentarono da lui, mesi dopo, con i primi frutti della terra ricevuta in dono: furono ringraziati calorosamente dal padrone, e invitati a riportare a casa quelle primizie, con i saluti e gli auguri del datore di lavoro. Episodio didascalico cui aggiungo soltanto la mia gratitudine sincera per la solerzia dei consigli che mi largisce don Saverio.

Più di dieci anni fa ebbi la sorte di incontrare a Gravina, ai piedi della scalinata della ricca e prestigiosa Biblioteca Finia, un Gravinese che volle sùbito farmi notare di essere lui stesso mezzo altamurano, almeno quanto io mi sentissi gravinese. Sapendo del mio attaccamento al dialetto, volle fare sfoggio del suo altamurano. Non seppi reciprocare, ma scambiammo battute in Latino, omaggio alla Madre di tutte le lingue dell’area romanza. Decidemmo quella sera stessa di impegnarci per promuovere ogni sorta di collaborazione tra le nostre città, intese come entrambe di ciascuno. Sono davvero fiero di quanto hanno fatto i Bolognese e i propri congiunti, e sono altrettanto certo che sapremo fare ancora meglio.  

Alla memoria felice di Ninì Langiulli (1933-2020),

di madre altamurana, è dedicato questo scritto.

Giuseppe Bolognese

27 ottobre 2023

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