Demonizzare la morte: riti e credenze della Murgia

Nel mese dedicato ai cari defunti, un piccolo studio su alcuni riti e credenze della nostra Murgia per demonizzare la morte.

L’uomo è, tra tutti gli esseri viventi, l’unico a possedere la consapevolezza di dover morire. Così tutte le culture hanno prodotto delle credenze riguardo al destino dei defunti, strutturando dei rituali per accompagnare il defunto verso il suo “grande” viaggio. Tutto questo per demonizzare la morte e ricucire il tessuto connettivo della famiglia e del gruppo sociale.

Come in tutte le culture popolari subalterne, anche nella Murgia il culto dei morti è stato un elemento che ha caratterizzato gli aspetti folklorici di una società totalmente immersa in credenze che riflettono sia l’ansia del contagio della morte sia la “vita” nell’Aldilà del caro defunto. I riti di congedo, l’elaborazione del lutto, la coltivazione del ricordo, rappresentano i tratti distintivi del rapporto che la società folklorica intrattiene con la morte.

L’evento morte produce innanzitutto angoscia per la presenza del defunto, da qui i conseguenti tentativi di neutralizzarne la pericolosità immediata e futura: si cerca di agevolare il viaggio dell’anima del morto, di evitare che resti impigliata nel mondo dei vivi e di scongiurare l’eventualità di un ritorno. Il tutto senza trasmettere al morto la sensazione che ci si voglia liberare della sua presenza. Questo per allontanare definitivamente l’anima e trasformare il morto in antenato. Anche la Chiesa, grazie alle sue prescrizioni (estrema unzione con confessione, Comunione e pentimento) assicura un buon trapasso.

Secondo la credenza murgiana la morte è “segnalata” da eventi premonitori, come la civetta che canta guardando la casa del “prescelto” o un cane randagio che ulula verso la sua abitazione.

Appena constatata la morte, si compiono subito i primi atti per esorcizzare la morte: si chiudono immediatamente le palpebre al defunto (per non “contagiare” i presenti), poi lo si lava e si veste con abiti nuovi, si serra la bocca (per non far “rientrare” l’anima del defunto), si apre la finestra della camera dove staziona la persona estinta (per permettere all’anima di uscire dalla casa).

Il morto è vestito dopo il lavaggio. Gli abiti sono quelli nuovi per gli adulti, per i bambini si usano i vestitini della Prima comunione o comunque di colore bianco, mentre per le spose “fresche” (o lo sposo) si usa l’abito nuziale. Per quanto riguarda le calzature, anche queste devono essere rigorosamente nuove, perché è credenza comune che far indossare scarpe usate porti malaugurio. Così, quando le condizioni economiche non permettevano di acquistarle nuove, si ricorreva a un espediente: le “scarpe da morto”. Sono in pratica calzature belle esteticamente ma costruire con cartone pressato e verniciate di nero. Questo non avrebbe causato oneri supplementari alla famiglia.

La vestizione segue un preciso rituale: al morto si parla come fosse vivo, preannunciando le diverse fasi della vestizione, questo per comunicare con il morto, rendendo il cadavere meno rigido e più collaborativo alle operazioni di vestizione.

Non bisogna mai piangere e lamentarsi della dipartita sino a quando il morto non è vestito ed è preparato per l’esposizione ai visitatori, questo perché la credenza folklorica crede che le funzioni vitali legate alla consapevolezza non cessano subito con la morte e, quindi, non bisogna far capire al “morto che è morto”.

I riti funebri coinvolgono anche gli oggetti appartenuti al morto. L’usanza di deporre degli oggetti nella bara del defunto serve per confermare e potenziare l’identità del defunto nell’Aldilà e per ricostruire la sua nuova domesticità. Tra questi, la deposizione di documenti d’identità o di un foglio con scritte le generalità del defunto servono per fornire un’identità certa per l’ultimo viaggio verso la meta finale.

Lavato e vestito, il defunto e posizionato nella camera da letto matrimoniale con i piedi rivolti verso la porta e con quattro ceri accesi agli angoli.

Tutte le attività domestiche sono sospese per l’intero periodo della presenza della salma in casa. Inoltre si coprono gli specchi o qualsiasi oggetto riflettente (per non “rispecchiare” la morte), si fermano gli orologi, si drappeggia il portone con panni neri (oggi con una coccarda).

Il trapasso di un congiunto era reso noto alla comunità in due modi: le donne, subito dopo la vestizione del morto, correvano fuori di casa urlando come in un pianto rituale, le campane della chiesa parrocchiale “suonavano a morto” (mortorio) secondo lo status della persona dipartita (durava più a lungo in caso di morte di un maschio; ancora più solenne diveniva in caso di trapasso di un nobile; maestoso in caso di dipartita di un sacerdote).

Dato l’annuncio i superstiti vestiti a lutto ricevono le persone che si recano a dare “il saluto al morto” e le condoglianze ai parenti. Questo è un obbligo per i parenti lontani e un dovere sociale per gli amici e conoscenti.

Il lutto, il segno esteriore della dipartita di un caro, è nero dalla testa ai piedi per le donne; mentre per i maschi un nastro nero da arrotolare attorno alla manica sinistra della giacca e al cappello, cravatta anch’essa rigorosamente nera (più tardi il tutto è sostituito da un bottone ricoperto di stoffa nera da appuntare sulla giacca).

A lutto era drappeggiato il portone dell’abitazione (con un pesante drappo nero che vi restava così per tre giorni), come a lutto erano messi anche gli animali appartenuti al defunto (una striscia nera attorno al collo dei bovini, degli ovini e degli equini).

Il lutto dura da un minimo di tre giorni (per i parenti lontani) a tre anni (per i parenti vicini). Ovviamente questa non è la regola: ognuno è libero di portare il lutto anche per più di tre anni, persino per tutta la vita. Tuttavia, prima di togliere completamente il lutto, si procede a piccoli passi, passando al “mezzo lutto” (dove il nero è sostituito dal grigio) e al “terzo lutto” (dove si usano colori spenti e non troppo sgargianti). Una eccezione è rappresentata dalla donna in stato di gravidanza: ad essa non spetta il lutto completo durante la gestazione, mentre dopo il parto il lutto, per scaramanzia, deve sparire per non “contaminare” il nuovo arrivato.

Nelle città della Murgia non vi era una propria usanza del pianto rituale, come nella vicina Lucania. A questo provvedevano le donne più intime del defunto (mamma, moglie, sorelle, comare). Ci sono due momenti in cui il pianto si fa particolarmente acceso: la deposizione del cadavere nella bara e l’uscita di casa del feretro.

Uscito il morto da casa, si serravano le finestre per non permettere all’anima di farvi rientro.

Inizia così il corteo funebre che sino a una trentina di anni fa, era prerogativa dei soli maschi. Per questo, dopo che la salma aveva ricevuto l’ultima benedizione in chiesa, il corteo funebre ripassava dinanzi a quella che era stata la sua casa, per permettere l’ultimo saluto alle donne. Al passaggio del corteo, queste si affacciavano dalla finestra ritornando a “piangere il morto”.

Il corteo funebre prevedeva anticamente il trasporto del feretro a spalla, con i piedi in avanti, da parte di muratori ingaggiati dal barbiere, che organizzava tutto il “servizio” funebre. La portantina fu sostituita dal carro funebre che per i bambini era più particolare (cd “carro dei mortini”).

Durante i funerali, ai lati del feretro si posizionavano da sei a otto persone: il cosiddetto “laccio”. In pratica erano i rappresentanti delle categorie lavorative del defunto e dei suoi figli. Il termine “laccio” deriva dai cordini che pendevano dal drappo nero che ricopriva la portantina sui cui era adagiata la bara. Il “laccio” simboleggiava la presenza della comunità locale alla dipartita di un concittadino. Col passare tempo, al “laccio” iniziarono a essere chiamati anche compari di cresima o di fede o amici più stretti del defunto.

Se nella città era presente un brefotrofio, dietro compenso le orfanelle prima di partecipare al corteo funebre si recavano in casa del morto per recitare il rosario di requiem.

Secondo il compenso che si versava alla Chiesa, il funerale poteva vedere la partecipazione del solo parroco o di più sacerdoti. Il numero delle corone e dai cuscinetti di fiori che sfilavano in corteo “misuravano” l’affetto verso il defunto.

Con l’invenzione della fotografia, divenne usanza non solo immortalare le varie fasi del corteo funebre, ma anche farsi “l’ultimo scatto con il morto” prima dell’inumazione.

Al passaggio del corteo funebre era usanza antica serrare tutte le finestre delle abitazioni e chiudere le porte dei negozi. Con questo gesto si voleva dar rispetto al defunto, interrompendo momentaneamente le attività lavorative e la vita domestica.

Seppellito il defunto, i parenti tornavano a casa, dando avvio all’ultimo atto dei riti funebri: il pranzo rituale che conclude il periodo di stretta interdizione della vita domestica e segna il rifluire della vita nella casa. Questo pasto consolatorio è preparato e recapitato da amici intimi e consisteva generalmente in un primo a base di brodo di carne. Con questo atto si segnava un timido riavvio della domesticità nella casa segnata da un lutto.

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